mercoledì 21 settembre 2011

Eto'o e i suoi antenati: i grandi addii

Se proprio certe disgrazie devono capitare, meglio che accadano a chi ci ha già fatto il callo.
Per un malato di tifo (calcistico, s’intende) non é facile assistere alla dipartita del proprio idolo alla volta della steppa e di un paese dal nome degno di un romanzo di Tolkien. A fare il giullare di corte di un enigmatico parvenu post-sovietico, dall’inquietante passato e dall’opulento presente.
Il tifoso interista, tuttavia, ne ha viste di cotte e di crude negli ultimi anni, e ha imparato a metabolizzare.
Lo stesso Samuel Eto’o, a ben vedere, era stato chiamato a sostituire (e all’epoca non pochi torsero il naso) il grande Zlatan Ibrahimovic, poi caduto vittima di misteriose crisi intestinali, leggasi mal di pancia per lo scarso appeal internazionale dei nerazzurri.
Ma quando uno ha visto partire come un fuggiasco (estate 2002), senza un grazie, senza un mi dispiace, il Fenomeno Ronaldo, venerato nella sua indimenticabile stagione d’oro (campionato 1997/98) e poi amorevolmente accudito come un figlio moribondo durante l’interminabile degenza, la sindrome da abbandono gli fa un baffo.
Che la gratitudine non sia di questo mondo, Massimo Moratti l’aveva capito per tempo. Come dimenticare la fuga, peraltro ben meno dolorosa, del nigeriano Nwankwo Kanu, acquistato dall’Ajax nel 1996 con le stimmate del futuro campione, prima che gli venisse riscontrata una misteriosa anomalia cardiaca. Curato per un anno intero a spese dell’Internazionale Football Club, fa in tempo a giocare mezza stagione in nerazzurro, prima di fuggire destinazione Arsenal, dove solo in parte mantiene fede alle promesse giovanili.
Del resto ha  vestito la maglia nerazzurra il “traditore” per eccellenza del nuovo millennio, Luis Figo, passato dal Barcellona agli odiati rivali del Real Madrid.
E’ il 2000 e sulle reti Mediaset imperversa come opinionista Arrigo Sacchi (e il suo alter ego Maurizio Crozza a “Mai dire goal”). I quali tessono le lodi del calcio spagnolo, l’uno con aria sentenziosa l’altro con fare canzonatorio, additandolo a emblema di sportività e fair-play, in palese e polemica contrapposizione col triviale football nostrano.
Questo fino a quando gli inferociti tifosi catalani, in un indimenticabile Barça-Real in quel di Barcellona, non lanciano alla volta del loro ex-beniamino, intento  a battere un calcio d’angolo, una testa di maiale grondante sangue, messaggio minatorio-mafioseggiante mutuato da “Il padrino” (ma lì la testa era di un cavallo …).
Tutto il mondo é paese, insomma. E del resto, proverbio per proverbio, se Atene (vedi Inter) piange, Sparta (Milan) non ride.
Gli addii di Andryi Shevchenko (2006) e Kakà (2008) sono stati digeriti rapidamente più che altro in virtù del repentino e non preventivabile declino dei due fuoriclasse. Ma sul momento provocano vere scene d’isteria collettiva nell’imperturbabile capitale meneghina.
L’ucraino Sheva, faccia da bravo ragazzo cresciuto nell’Urss ormai prossima allo sfaldamento, parte per Londra, sedotto dal magnate russo Abramovich, con il precipuo scopo (ipse dixit) di agevolare l’apprendimento della lingua inglese da parte dei figli.
Missione compiuta: lui diventa pure un buon giocatore di golf, ma del micidiale attaccante che squarciava le difese di mezza Europa neanche l’ombra.
E così il temporaneo ritorno in prestito a Milano, nell’estremo tentativo di ritrovare lo smalto di un tempo, non si rivela altro che una parentesi straziante per tutti: nessun rimpianto, nessuna lacrima viene versata per il secondo addio dell’ucraino ai rossoneri.
Ma Shevchenko andava già per i trent’anni. Kakà, faccia d’angelo pure lui e devoto a Nostro Signore come una perpetua di campagna, pare invece al top della carriera, quando lascia Milano travolto da una pioggia di euro elargiti dal palazzinaro spagnolo Florentino Perez.
I primi due anni di Kakà al Real Madrid sono stati sinora un pianto, e certi problemi fisici timidamente emersi nell’ultimo periodo milanista sono esplosi in terra spagnola, al punto da far sospettare che dietro i dispiaceri di prammatica si celasse in Galliani e compagnia la segreta speranza di aver rifilato agli iberici una colossale fregatura.
Abbiamo finora citato vicende alquanto recenti. Un po’ perché, é chiaro, la memoria a breve termine viene più facilmente in soccorso in questi casi. E un po’ perché la vorticosa girandola di carne umana che sta diventando il calciomercato negli ultimi anni, agevola sempre più situazioni simili, laceranti per i tifosi quanto remunerative per i diretti interessati.
Si fa più fatica andando indietro con gli anni, quando cambiare casacca era meno frequente e i trasferimenti fra club divisi da accese rivalità rimanevano veri e propri tabù.
Tutto in fondo ebbe inizio nel 1913. Il milanista Renzo De Vecchi, ha diciannove anni ma gioca in Nazionale da quando ne ha sedici: é soprannominato “il figlio di Dio” e non credo ci sia altro da aggiungere.
Milanese doc, é già una bandiera rossonera (e un personaggio di notevole impatto mediatico, si direbbe oggi), quando dal Genoa, la squadra più forte del momento, arriva una proposta irrinunciabile.
Oddio, una proposta che oggigiorno non indurrebbe nemmeno un giocatore di serie C ad alzare la cornetta del telefono: ma assolutamente indecente per l’epoca.
Trattasi, ebbene sì, di un posto in banca alla Comit di Genova, disposta a offrire, in tacito accordo coi “Grifoni”, uno stipendio ben superiore a quello che “il figlio di Dio” percepiva da impiegato (il professionismo era ancora di là da venire …) alla Banca di Milano.
Con lui, per inciso, arrivano anche tali Sardi e Santamaria (entrambi dai vicini dell’Andrea Doria), beccati tuttavia in flagrante a riscuotere un cospicuo assegno elargito dal Genoa, in palese violazione delle  puerili norme sul dilettantismo vigenti nell’epoca pionieristica (passi offrire posti di lavoro, ma soldi neanche a parlarne!!), e pertanto squalificati con ignominia.
De Vecchi fa giusto in tempo a dare un saggio della sua classe vincendo insieme ai riabilitati Sardi e Santamaria lo scudetto nel 1915, per riallacciare il discorso dopo la Prima Guerra Mondiale e portare i genovesi al successo nei campionati del 1923 e del 1924.
Ma la casistica é alquanto variegata e interessante, e per un motivo molto semplice: a differenza di oggi, non si divorziava solo per questioni di vil denaro.
Ci sono stati addii carichi di rancore.
Dall’Argentina con livore, l’addio dell’iracondo per antonomasia Omar Sivori (battezzato non a caso “il testone”), si consuma in pratica in due tranches.
Protagonista assoluto con il gigante buono Charles (gemello inseparabile come Arnold Schwarzenegger lo era di Danny De Vito nel famoso film) della meravigliosa Juventus a cavallo fra i ’50 e i ‘60, porta a casa tre scudetti e un Pallone d’Oro.
Ineguagliato amore calcistico dell’Avvocato (almeno fino all’avvento di Platini), lascia Torino, e non certo per sua scelta, nel 1965: in apparente fase calante e dopo qualche bizza di troppo.
Grande architetto dell’operazione, l’allenatore paraguaiano Heriberto Herrera, inflessibile nei rapporti coi giocatori e fautore di quel calcio iper-atletico e votato agli schemi che esploderà dagli anni ’70 in poi.
Così Sivori sbarca a Napoli, dove libero da pressioni d’alta classifica e travolto dalla passione dei partenopei, vive una seconda giovinezza.
Ma il tarlo di quell’abbandono lo rode ancora, per tre lunghi anni. Ormai in rotta di collisione anche con l’ambiente napoletano, ritrova la Juventus, sempre in mano al sergente di ferro Herrera, il 1 dicembre 1968. All’ennesima provocazione del suo marcatore, Pierino Favalli, risponde da par suo: reazione inconsulta e cartellino rosso con  gigantesca zuffa incorporata.
Squalificato per sei giornate, esplode in conferenza stampa vomitando rabbia sulla Juve e sul suo nemico giurato.
Ormai abbandonato da tutti, decide di tornare in Argentina. Renato Cesarini, ex gloria juventina, gli offre un posto al River Plate, la squadra da dove aveva spiccato il volo, ma ormai non é più cosa: Omar Sivori lascia il calcio nel peggiore dei modi, a soli 33 anni.
Ci sono addii furtivi: talvolta in sintonia con il rapporto fugace di cui sanciscono la fine, talvolta del tutto inadeguati ad esso.
C’é un altro argentino, lo sappiamo bene, che ha infatti infiammato Napoli come e più di Sivori.
Ma Napoli e Diego Armando Maradona non si sono neanche salutati per l’ultima volta. Un amore tormentato e travolgente, finito un giorno qualsiasi, al termine di una partita che poteva essere come tante altre, Napoli-Bari, giornata 8 del girone di ritorno, stagione 1990/91.
Ed invece era l’ultima.
“El Pibe de Oro” era sbarcato all’ombra del Vesuvio sei anni e mezzo prima, nell’estate del 1984. Sei anni e mezzo vissuti pericolosamente, fra trionfi mai nemmeno sognati da una tifoseria vergine di successi, relazioni pericolose con la criminalità, liti, tradimenti e chi più ne ha più ne metta.
Il rapporto era ormai agli sgoccioli, lo si capiva. Con Napoli e con il calcio italiano tutto: come dimenticare l’”hijos de puta!!” urlato in faccia all’intero Stadio Olimpico che fischiava l’inno argentino, finale di Italia ’90.
Ma uno così, sia che lo si veda come proprio condottiero che come il più acerrimo dei nemici, merita un addio in pompa magna.
E invece il più grande calciatore mai visto nel nostro campionato esce di scena dalla porta di servizio, il 17 marzo 1991. Trovato positivo alla cocaina (vizio a lungo colpevolmente celato), Maradona se ne va da un giorno all’altro, per non tornare mai più a Napoli.
Abbiamo già citato i casi di Boyé e Martino, capostipiti di tutta una teoria di calciatori sudamericani fuggiti improvvisamente dal Belpaese causa un’incapacità cronica di adattamento.
A loro va affiancato il trio argentino composto da Enrique Guaita, Alejandro Scopelli e Andres Stagnaro. Che approdano alla Roma nel 1933 fra squilli di tromba, e di soppiatto se ne vanno due anni dopo.
Il fatto é che a quei tempi naturalizzare i calciatori sudamericani di discendenze italiane é la norma, soprattutto se di apprezzabile levatura. E se Stagnaro é un onesto mestierante e nulla più, Guaita e Scopelli sono due campioni.
Guaita é addirittura una colonna della squadra italiana che vince il Mondiale a Roma nel 1934, e diventa un eroe dell’Italia fascista.
Bello, essere accolti così affettuosamente dalla propria patria d’adozione. Ma quando agli onori si aggiungono gli oneri, leggasi imbracciare un fucile e partire per la Guerra d’Etiopia, ecco che tutto d’un tratto ti torna la nostalgia di casa.
E così i nostri tre eroi, che peraltro con ogni probabilità l’avrebbero sfangata comunque (i calciatori erano cittadini diversi dagli altri sin da allora …), il 19 settembre 1935 raggiungono (prima in auto poi in treno) Ventimiglia, da dove varcano nottetempo la frontiera francese, per infine imbarcarsi su un piroscafo destinazione Argentina.
In curioso e francamente inspiegabile parallelismo con i sudamericani, i calciatori inglesi si son resi spesso protagonisti di dipartite rocambolesche dal nostro Paese, che viceversa i loro connazionali paiono particolarmente apprezzare nella veste di turisti.
Come dimenticare il centravanti Jimmy Greaves, uno dei più prolifici bomber inglesi della storia.
Approda al Milan nell’estate del 1961 con qualcosa come 124 goal all’attivo nel Campionato inglese (e ha solo 21 anni …).
Con lui, però, arriva nel capoluogo lombardo anche un nuovo allenatore, Nereo Rocco. Uno che ha fatto faville in provincia, a Padova, a colpi di catenaccio e motti  dialettali, e che a occhio e croce non pare aver una gran dimestichezza con le étoile eccentriche e bizzose.
Greaves é un fuoriclasse in campo (9 goal in 12 partite), ma pure nel piantar grane. Si presenta in ritardo al raduno estivo e da lì sarà un’escalation di capricci, notti brave, sbronze colossali e plateali atti di insubordinazione.
Rocco, che condivide con il geniaccio inglese l’amore per gli alcolici (Jimmy per la birra, il “Paron” per il vino) e poco altro, si stanca in fretta.
E così a novembre il colpo a sensazione della campagna acquisti milanista é già su un aereo per Londra, con la ragguardevole media di un goal a partita e di una marachella al giorno. In patria continuerà a segnare goal a raffica, mentre Rocco, troverà nel suo sostituto, il vetusto e cerebrale brasiliano Dino Sani, l’uomo della provvidenza che gli farà vincere quel campionato: e  così, per una volta, tutti vissero felici e contenti.
Tornando a Nereo Rocco, ci sono addii che non sono addii.
Sulla scia di quello scudetto rocambolesco, infatti, il “Paron” vince l’anno seguente la Coppa dei Campioni (prima squadra italiana a riuscire nell’impresa), a Wembley contro il Benfica di Eusebio.
Sono due anni magici, conditi dalla scoppiettante rivalità col dirimpettaio interista, il “Mago” Helenio Herrera, altro grande istrione della panchina.
All’apice del successo, però, Rocco lascia.
In contemporanea col Presidente che l’aveva scelto, Angelo Rizzoli, e forse fiaccato dal tormentato rapporto col plenipotenziario rossonero Gipo Viani. L’amico-nemico di una vita, lo stratega con cui condivide (la questione é annosa e dibattuta) l’invenzione del “libero”, il quasi conterraneo con cui parla lo stesso dialetto (quello veneto) ma non sempre la stessa lingua.
Rocco va al Torino, che non é esattamente una fuoriserie, e lì vive in una sorta di semi-anonimato per quattro anni, funestato peraltro dalla tragica morte del giovane fuoriclasse Gigi Meroni.
Poi, nel 1967, il grande ritorno.
Rivera è più forte di quando l’aveva lasciato, ci sono ancora Trapattoni, Lodetti e Mora. E in più i fidi Roberto Rosato, ex Toro, e l’ormai stagionato Kurt Hamrin, suo vecchio pupillo ai tempi del Padova.
Il Rocco bis è un trionfo, meglio ancora della prima versione. Scudetto e Coppa delle Coppe il primo anno, poi la seconda Coppa dei Campioni e la conseguente Coppa Intercontinentale, (sfuggita sei anni prima), più un’altra Coppa delle Coppe nel 1973 e due Coppe Italia: alla faccia di chi dice che le minestre riscaldate risultano sempre insipide!
Ci sono invece addii che preludono a un ritorno, che a sua volta é l’anticamera di un nuovo tradimento.
Johan Crujff cresce a pane e Ajax. E’ infatti il figlio di una donna delle pulizie del club di Amsterdam, fino ad allora ai margini del calcio che conta, come del resto il football olandese in generale.
Ma con lui, Neeskens, Krol e il grande maestro Rinus Michels, l’Ajax arriva sul tetto del Mondo, praticando quel gioco post-moderno che passerà alla storia come “calcio totale”.
Nell’estate del 1973, alla vigilia della stagione che lo porterà a sfiorare la vittoria ai Mondiali con l’Olanda, Cruijff saluta la casa madre e passa per una cifra iperbolica al Barcellona (circa 2 milioni di dollari dell’epoca).
Dopo aver dato ampio sfoggio del suo talento in Catalogna, va a giocare anche in America (e sono altre montagne di dollari …). Infine, nel 1981, a trentaquattro anni suonati, torna al vecchio amore, l’Ajax, dove tanto per cambiare conquista altri due scudetti.
La perfetta chiusura di una carriera leggendaria? Neanche per sogno.
Perché a trentasei anni, ormai pallido ricordo del fuoriclasse che fu, Cruijff lascia la squadra nella quale é cresciuto, per approdare agli acerrimi rivali del Feyenoord (inutile dire che vince il campionato …). Perché infliggere una simile sofferenza ai propri tifosi, ora che il viale del tramonto é ormai imboccato? Beh qui a pensare che ci siano di mezzo dei sonanti bigliettoni  probabilmente non ci si sbaglia …  
Ci sono addii lì per lì lancinanti, e tuttavia ridimensionabili dall’evolversi degli eventi.
Quando Roberto Baggio, reduce dalle performances strepitose di Italia ’90, lascia la Fiorentina per raggiungere gli odiatissimi nemici della Juventus (e da quelle parti quando si odia qualcuno c’é poco da scherzare), tutta Firenze scende in piazza.
Lui, per ricomporre almeno in parte il dissidio, rinuncia a tirare un rigore contro la sua ex squadra, il giorno della sua prima partita da juventino allo Stadio Franchi.
Ma dopo la Juve arrivano il Milan, il Bologna, l’Inter, il Brescia. E si capisce che Baggio non é uno da fare la bandiera a vita, o il capopopolo, di qualsiasi popolo si tratti: é di tutti, di tutti quelli che amano il bel calcio.
Meglio così, avrà pensato qualcuno che Firenze che non aveva mai dimenticato: perché un conto é quando l’uomo della tua vita ti lascia per sposare la tua peggior nemica, un conto é quando scopri che il ragazzo è, per così dire, “farfallone” di natura …
Ci sono addii misteriosi e struggenti.
E’ assai nota la vicenda di Mathias Sindelar, sontuoso attaccante  dell’Austria Vienna, ai tempi (anni ’20-’30) in cui Vienna era una delle capitali del calcio mondiale.
Detto “Cartavelina” per il fisico sottile e filiforme, è il giocatore di maggior classe del Wunderteam, la Nazionale austriaca che contende in quegli anni all’Italia la leadership continentale.
Ma il 12 marzo 1938 il Wunderteam sparisce dal panorama calcistico internazionale: anzi, é l’Austria a sparire dalle cartine geografiche, annessa alla Germania Nazista.
Così i migliori calciatori austriaci accettano, loro malgrado, di vestire la maglia della Nazionale tedesca e, come facile immaginare, la rinforzano sensibilmente. Molti, ma non tutti. Non Sindelar e il suo compagno di club Karl Sesta.
Incerte e dibattute sono le origini ebree di Sindelar: del tutto comprovate lo sono invece quelle del Presidente dell’Austria Vienna Michl Schwarz, brutalmente defenestrato ma difeso a spada tratta dal suo giocatore più famoso.
Durante un’amichevole celebrativa dell’Anschluss (nella quale segnano proprio Sindelar e  Sesta), i due si rifiutano di salutare i gerarchi nazisti presenti in tribuna: è l’inizio della fine.
Karl Sesta finirà col cedere (indosserà la maglia della Germania, ma solo nel 1941). “Cartavelina”, invece se ne é già andato da un pezzo: trovato morto nel suo appartamento il 23 gennaio 1939 in compagnia di una ragazza italiana (una prostituta?) poche settimane dopo quella, a suo modo, storica partita. “Avvelenamento da monossido di carbonio”, la spiegazione ufficiale, che lascia tuttora aperte tutte le ipotesi.
Per certi versi simile la storia dell’ungherese Arpad Weisz. Arrivato in Italia negli anni ’20 come calciatore, dà il meglio di sé in panchina, dove si rivela un autentico maestro di calcio (scrive anche un apprezzatissimo manuale, “Il giuoco del calcio”).
E’ lui, imbeccato da Fulvio Bernardini, a far esordire nell’Inter, nell’agosto del 1927, il grande Giuseppe Meazza, allora diciassettenne.
Nella stagione 1929/30 (primo Campionato a girone unico) vince lo scudetto, sempre alla guida dei nerazzurri grazie anche ai 31 goal di Meazza.
Poi passa al Bologna. Quello che “tremare il mondo fa”, autentica corazzata costruita con passione dall’indimenticabile patron Renato Dall’Ara.
Sono due scudetti in due anni, e un “Torneo dell’Esposizione Universale di Parigi”, sorta di Champions League ante-litteram.
Finché una laconica e raggelante nota de “Il Resto del Carlino” del 26 ottobre 1938, annuncia l’approdo sulla panchina felsinea dell’austriaco Hermann Felsner (senza peraltro mai nominare Weisz): come se Guardiola si volatilizzasse un bel giorno e tutti a Barcellona voltassero la testa dall’altra parte.
Il fatto é che Arpad Weisz é ebreo. Insieme alla famiglia lascia in fretta e furia (è il gennaio del 1939) il nostro paese e si rifugia in Francia, poi in Olanda, dove allena per un po’ il Dordrecht. Poi i Nazisti  invadono anche i Paesi Bassi, e di Weisz si perdono le tracce.
La seconda parte della storia é, se possibile, ancora più incredibile e straziante. Perché neanche a guerra finita, nessuno, forse per la fretta di voltare pagina, forse per banale superficialità, si prende la briga di scoprire che fine abbia fatto l’allenatore più vincente della storia del Bologna.
Neanche il grande Enzo Biagi, che in un libro sulla storia del Bologna, racconta “era molto bravo, ma anche ebreo e chi sa come è finito”: solo supposizioni, brutti presentimenti.
Com’è finito lo scopre ai giorni nostri (cioè più di sessant’anni dopo!) un giornalista del “Guerin Sportivo”, Matteo Marani: Arpad Weisz é morto ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944, preceduto due anni prima dalla moglie e dai due figli nati in Italia.
Acerrimo rivale di Weisz è in quegli anni Carlo Carcano, nato a Varese ma piemontese d’adozione. Rivelatosi sulla panchina dell’Alessandria, dove lancia i futuri Campioni del Mondo “Giuanin” Ferrari e Gigi Bertolini, approda alla corte degli Agnelli nel 1930.
E’ la Juventus del “quinquennio”, dei cinque scudetti consecutivi. Ci sono i fedeli discepoli Ferrari e Bertolini, i fantastici oriundi Cesarini, Monti e Orsi, l’immarcescibile portiere Combi, il bomber Borel e l’indissolubile coppia di terzini “made in Piemonte” Rosetta/Caligaris.
Eppure, nell’albo d’oro che celebra quei cinque straordinari scudetti, Carcano compare nelle vesti di allenatore solo nei primi quattro. Viene infatti esonerato nel febbraio del 1935, con la squadra ben avviata a quello che sarà il quinto e ultimo titolo.
C’é da subito una cappa di omertà sull’argomento, che la stampa di Regime non si sogna certo di squarciare.
La verità, o almeno una versione plausibile, verrà fuori anche qui col tempo. Carcano avrebbe manifestato non meglio precisate tendenze omosessuali, ovviamente mal digerite dall’austera dirigenza bianconera, fino ad alcuni episodi, mai resi noti, che avrebbero coinvolto alcuni degli elementi più giovani della squadra.
In pieno Ventennio fascista, e in un ambiente già di per sé maschilista e conservatore, é sin troppo facile immaginare come la carriera ad alto livello di Carcano potesse considerarsi seduta stante conclusa.
Un’estemporanea esperienza al Genoa in B come vice di Renzo De Vecchi (quasi un atto di contrizione per un fuoriclasse della panchina come lui), e poi nulla fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Torna nel Dopoguerra, ma senza risultati degni di nota. Inter, Fiorentina, Atalanta e infine il primo amore, l’Alessandria: se ne esce così di scena, l’unico allenatore ad aver vinto quattro Campionati di serie A consecutivamente.
Con una piccola grande soddisfazione, che in parte rende giustizia del danno subito: quello di vedere il torneo per ragazzi da lui fondato con alcuni amici nel 1947, il “Carlin’s Boys” di Sanremo, diventare un punto di riferimento per tutto il calcio giovanile mondiale.
E ci sono, infine, addii che trasudano di dignità.
Come quello del grande Gigi Riva. Quinto moro ad honorem della bandiera sarda (lui che veniva dall’hinterland milanese), una vita calcistica e non solo votata al Cagliari e alla Sardegna, cui porta in dono uno scudetto e per i quali rinuncia a vagonate di trofei e quattrini. Saluta ad aprile del 1977, a 33 anni, infortunato per l’ennesima volta, con uno scarno comunicato:
“Non me la sento di ingannare il pubblico tornando sul campo in condizioni menomate. Avrei potuto farlo, ma preferisco che ricordino il Riva delle giornate migliori”.
Signori si nasce, diceva qualcuno.