giovedì 24 febbraio 2011

Per un pugno di gloria: piccole e grandi truffe nello sport

“Mens sana in corpore sano” dicevano i Latini. “L’importante non é vincere ma partecipare” replicava il barone De Coubertin, nume tutelare dell’olimpismo moderno.
L’esercizio di un’attività fisica in chiave agonistica, reca da sempre con sé la presunzione di una lealtà e di un rispetto reciproco fra i contendenti, di una virtuosità che trascende il corpo per riverberarsi  in un animo limpido e nobile.
Eppure, lo sappiamo bene, le frodi  per rimodellare le gerarchie decretate dal campo sono all’ordine del giorno, nello sport professionistico ma non solo.
Ci sono, a ben vedere, due macrocategorie.
Il miglioramento delle proprie prestazioni, con l’utilizzo di sostanze vietate o di altri accorgimenti (vedi gli sport motoristici) non consentiti dal regolamento vigente. Dal doping fai da te di inizio Novecento a quello super-tecnologico della Germania Est, dai muscoli ipertrofici di Ben Johnson al Tour de France del 1998, la letteratura é ampia e variegata.
E l’alterazione complessiva della contesa, tramite la corruzione, o quantomeno l’accomodamento, di avversari o giudici di gara. Qui, senza scomodarsi tanto, basta rimanere nei patrii confini calcistici per trovare una casistica più che nutrita: il Calcioscommesse anni ’80, il “sistema Moggi”, e una torbida storia con ingerenze delle alte sfere che porta alla revoca dello scudetto del Torino nel lontano  1927.
Qui però ci piace soffermarci su un particolare tipo di truffe: quella più maldestre, plateali e grottesche.
Pataccate, pacchiani e puerili raggiri da ladri di galline. Da parte di chi nel barare denota lo stesso, scarso talento, che li ha indotti a violare le regole per imporsi sui più meritevoli: di chi ha sancito il principio, per parafrasare indegnamente Anna Arendt, della banalità dell’imbrogliare.
Innanzitutto sgombriamo il campo da un luogo comune: non é stata la deriva affaristica dello sport di oggi, l’ingerenza di sponsor miliardari né il graduale imbarbarimento della società di fine millennio, a far crescere il numero di episodi del genere. Ci sono sempre stati: anzi, hanno proliferato in particolare nello sport pionieristico, laddove controlli e regolamenti erano più approssimativi.
Un esempio?
Il Giro d’Italia del 1914: per il vincitore, Alfonso Calzolari, qualcosa di simile al “Giro del mondo in 80 giorni” di Jules Verne.
Calzolari balza in testa alla classifica nella seconda tappa, che domina con 23 minuti di vantaggio su Giuseppe Azzini e 34 su un giovanissimo Girardengo. Parrebbe mettersi bene per il buon “Fonso”, ma é l’inizio di un incubo.
Indicazioni stradali manomesse per fargli sbagliare percorso, chiodi buttati sotto le ruote per farlo bucare, cadute provocate ad arte dagli avversari, la più grave della quali lo fa quasi annegare in un fosso.
Non c’è limite alla creatività perversa dei suoi rivali e dei di loro tifosi: ma  Calzolari, imperterrito, tira dritto. Fino al clou, nella tappa di L’Aquila, quando una misteriosa auto rossa, a bordo della quale viaggiavano loschi figuri con barbe posticce, cerca di corromperlo proponendogli di trainarlo per qualche chilometro, e una volta incassato il rifiuto del campione, lo investe bellamente.
Neanche questa trovata va a buon fine ma, per assurdo, la vittoria dell’incorruttibile Calzolari rimarrà sub judice proprio per via di quel presunto traino, e verrà decretata solo alcuni mesi dopo.
Passano cinquant’anni, ed é sempre lo sport delle due ruote a ricordarci che la truffa é innanzitutto improvvisazione, capacità di passare inosservati e colpire al momento propizio.
Corre l’anno 1963 e per il Belgio l’undici di agosto é un giorno speciale. La cittadina di Renaix (o Ronse, alla fiamminga) ospita i Campionati del Mondo su strada, che hanno nel superbo velocista di casa Rik Van Looy il logico favorito.
E infatti all’imbocco del rettilineo finale l’esito pare scontato. Sono rimasti una ventina di corridori: Van Looy, “l’imperatore di Herentals” é il più veloce allo sprint, e può contare su un manipolo di gregari pronti a tiragli la volata.
Tutti tranne uno, Benoni Beheyt. Un ragazzino promettente ma decisamente acerbo, notato e quasi imposto dallo stesso Van Looy, in una Nazionale belga costruita in apparenza su misura per le esigenze del grande campione.
In apparenza, perché quando il suo vice, Gilbert Desmet, scatta a una manciata di chilometri dal traguardo, Van Looy comincia a subodorare che c’é qualcuno che rema contro fra i suoi.
Già, ma Beheyt: chi poteva immaginarselo. Lamenta crampi da metà gara, tanto da chiamarsi fuori dal più sporco lavoro di gregariato e far sapere per tempo al capitano di non aver più nulla da spendere nei chilometri finali.
Volata: Van Looy parte lungo, forse troppo, quando da dietro rinviene a tutta velocità una sagoma bislunga.
Tu quoque Beheyt! Il ragazzino rimonta fino ad affiancare Van Looy e giusto sul traguardo gli dà una manata sulla schiena  per scansarlo (o chissà, per sospingerlo in un tardivo gesto di pentimento).
Quel che é certo, é che per questo Giuda delle Fiandre sarà l’inizio della fine. Il Belgio sta al ciclismo come l’Italia sta al calcio, e l’opinione pubblica non lo accoglie certo come un eroe. Van Looy gli fa terra bruciata e l’ambiente (quello del pedale é un mondo alquanto tetragono e conservatore) lo respinge: sarà costretto a chiudere la carriera tre anni dopo, a ventisei anni, con quell’unica ma indimenticabile vittoria di Pirro nel carniere.
Certo, talvolta questi episodi di per sé ameni o quantomeno bizzarri nascondono risvolti spiacevoli e vicende umane complesse.
C’è una stella nel firmamento dell’atletica femminile degli anni ’30. Di nome e di fatto: si chiama Stella Walsh, pseudonimo angolofono di Stanislawa Walasiewicz, Polacca trapiantata con la famiglia negli Stati Uniti, è un’atleta straordinariamente poliedrica, capace di disimpegnarsi nella velocità come nei lanci di disco e giavellotto.


Stella Walsh



Come portabandiera della sua patria d’origine, vince un oro nei cento metri alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 e un argento quattro anni dopo nella stessa specialità a Berlino, oltre a due ori e due argenti agli Europei del 1938.
Finito di gareggiare, Stanislawa, o Stella, vive un’esistenza serena negli USA, si sposa con un pugile e muore nel 1980, durante una rapina a Cleveland.
Possiamo ben immaginare lo stupore del medico legale, quando durante l’autopsia scopre che l’ex campionessa ha …. genitali maschili!
Rarissimo caso di ermafroditismo, la Walasiewicz ha mantenuto comunque le medaglie conquistate. La scoperta postuma le ha risparmiato invece le orrende speculazioni di cui é stata vittima dopo i Mondiali di atletica del 2009 la sudafricana Caster Semenya: derisa dalle avversarie e buttata allo sbaraglio dall’avida Federazione del suo Paese, che tace degli ambigui esami sulla sessualità della ragazza e anzi tenta di salvare la faccia aizzando l’opinione pubblica locale contro gli organismi internazionali.
Sì, perché questi atleti cui viene gettata una medaglia al collo per dare lustro a federazioni e politicanti di ogni ordine e grado, sono spesso vittime ancor più che carnefici.
Chiedete ad Giovanni Evangelisti, ottimo saltatore in lungo con un bronzo alle Olimpiadi del 1984 come fiore all’occhiello.
Evangelisti é fra le punte di diamante della spedizione azzurra per i Mondiali di atletica casalinghi di Roma 1987.
Dopo cinque salti su sei, però, il nostro campione é solo quarto con la misura di otto metri e diciannove centimetri, dietro l’irraggiungibile Carl Lewis (8,67), il russo Emmian (8,53) e l’altro statunitense Myricks (8,33).
Evangelisti va per l’ultimo tentativo, che tuttavia non sembra un granché anche a occhio nudo. Atterra sulla sabbia, si rialza e se ne va sconsolato.
Percorre con la coda fra le gambe qualche metro, poi sente il boato del pubblico dell’Olimpico: 8,38, medaglia di bronzo!
Lì per lì rimane basito, poi sale sul palco delle premiazioni, ma sempre con stampato in faccia che qualcosa non quadra.
Non c’é bisogno di tecnologie in dotazione alla NASA per calcolare che il salto é più corto di un buon mezzo metro rispetto a quanto dichiarato. La polemica divampa: lì per lì ci si arrampica sugli specchi, si invoca l’errore umano o un maledetto guasto alle apparecchiature.
Ci volle un po’ per comprendere l’arcano, e si capisce anche il perché. Un giudice italiano, più realista del re, aveva preventivamente piantato nella sabbia un picchetto prisma (che, raccordato con l’asse di battuta, permette la misurazione) a una congrua distanza, tale appunto da proiettare il nostro atleta in zona medaglia.
Facciamo un salto di solo due anni per entrare nel mondo del calcio.
E’ il 1989 e al Maracanà di Rio de Janeiro si disputa una delicatissima partita fra Brasile e Cile, per la qualificazione al Mondiali di calcio di Italia ’90.
I padroni di casa hanno un goal di vantaggio e il lasciapassare per la massima rassegna mondiale in mano, quando scoppia il caos.
Il portiere cileno Roberto Rojas stramazza al suolo, avvolto nel fumo di un bengala scagliato dalle tribune. E’ in un lago di sangue e si contorce dal dolore: così i suoi compagni lo accompagnano a braccia fuori dal terreno di gioco, rifiutandosi categoricamente di riprendere il match, mentre uno di loro, Patricio Yanez, si rivolge verso il settore da cui é partito il fumogeno con rimostranze non propriamente da educanda.


Il Brasile é sull’orlo della catastrofe nazionale: la sconfitta a tavolino significa l’esclusione dal Mondiale, un’onta mai subita dalla Nazionale più titolata del pianeta.
Ma lo sconforto dura pochi giorni. Da riprese televisive e testimonianze dirette pare infatti evidente che il razzo é caduto ad almeno un metro da  Rojas.
E allora, tutto quel sangue? Beh, basta nascondere una lametta in un guanto, attendere il momento propizio e incidersi una zona particolarmente vascolarizzata, tipo il sopracciglio…
Ironia della sorte, Roberto Rojas militava all’epoca in Brasile al San Paolo. Radiato dalla FIFA e riabilitato dopo una decina d’anni, é tornato nel Paese che volentieri l’avrebbe linciato, dove si é costruito un’onesta (in tutti i sensi) carriera da preparatore dei portieri.
Gennaio 1994. Va in onda un sceneggiato rosa a tinte noir, con una cattiva cattivissima e una buona che più buona non si può, che terrà gli Stati Uniti col fiato sospeso neanche fosse l’ultima puntata di Beautiful.
Tutto ha inizio un paio di mesi prima, quando Tonya Harding, una Balotelli del pattinaggio su ghiaccio americano, con un’adolescenza disgraziata alle spalle e una tumultuosa love-story con un teppistello da strapazzo, riceve delle minacce di morte.
La Harding, talento immenso ma in precoce declino, entra finalmente nel cuore degli appassionati, al punto da insidiare la rivale di sempre, Nancy Kerrigan, eterea e aggraziata quanto lei era stagna e muscolare. Le Olimpiadi di Lillehammer sono alle porte, c’é posto per sole due atlete a stelle e strisce e non va sottovalutata l’impetuosa ascesa della tredicenne Michelle Kwan.
Siamo alla vigilia della gara di selezione, quando un tizio incappucciato irrompe nel bel mezzo di un’intervista e fracassa il ginocchio della bella Nancy.
Vince la Harding davanti alla Kwan. La Kerrigan guarda le rivali da una stanza d’ospedale, ma l’infortunio si rivela meno grave del previsto e la Federazione statunitense fa uno strappo alla regola decidendo a furor di popolo di portarla alle Olimpiadi al posto della Kwan.

L'eterea Nancy in primo piano, e la "cattiva" Tonya sullo sfondo

Il patatrac scoppia pochi giorni dopo: l’aggressore é uno scagnozzo assoldato dal marito di Tonya Harding, e le presunte minacce di morte una messinscena nel quadro di un disegno criminale più ampio.
Ma in attesa di un giudizio definitivo (il suo coinvolgimento sarà acclarato definitivamente solo in seguito) si decide di portare in Norvegia anche la Harding.
Così, il 23 febbraio a Lillehammer va in scena l’atto finale, come nel più classico dei polpettoni sentimentali hollywoodiani.
Tonya, novella “Crudelia Demon”, sbaglia tutto fra pianti e crisi isteriche. Nancy, la fidanzatina d’America, conquista una medaglia d’argento che con un po’ di buona sorte poteva essere d’oro.
Entrambe chiuderanno lì la loro carriera: Nancy monetizzerà a dovere l’improvvisa notorietà, mentre Tonya si arrabatterà fra video porno col consorte cospiratore e spogliarelli in nightclub di provincia.
Arriviamo così ai giorni nostri, alla Formula Uno in particolare. Giusto per dimostrare che le tecnologia spinta a livelli inimmaginabili ai profani non preserva necessariamente dalle truffe da strapaese.
Siamo nel 2007 e Nigel Stepney, dal 1993 meccanico della Ferrari, non é decisamente di buon umore. Si aspettava una promozione dopo l’abbandono del Direttore Tecnico Ross Brawn, ma ciò non accade.
Stepney non la prende bene e decide di vendicarsi, trasformandosi in un bambino birbante e capriccioso.
Il primo sabotaggio é esilarante, e consiste nel versare delle vitamine  in polvere  nel serbatoio di Raikkonen e Massa per far ingolfare il motore.
Il secondo é più elaborato, e coinvolge anche i grandi rivali della McLaren. Trattasi della cessione di dati top secret sulla monoposto di Maranello a un tecnico della squadra inglese, tale Mike Coughlan.
Ma il Gatto e la Volpe come spie lasciano alquanto a desiderare: a fare scoppiare il caso é infatti l’impiegato della copisteria in cui fanno fotocopiare i documenti segreti, che insospettivo telefona alla Ferrari.
Ma al peggio non c’é mai fine, e due anni dopo scoppia l’affaire Piquet, che porta alla radiazione (pur fra mille contestazioni) di Flavio Briatore.
La vicenda riguarda il G.P. di Singapore dell’anno precedente. Nelson Piquet junior come pilota non ha un briciolo del talento del padre, ma la Renault capitanata da “Mister Billionaire” gli dà comunque l’occasione per rendersi utile.
Il suo compito é schiantarsi contro muro. Nel punto giusto e al momento giusto (e possibilmente senza farsi male): in modo da agevolare gli strateghi del team, che già a conoscenza del momento dell’interruzione e del conseguente ingresso della Safety Car, possono così predisporre un piano di corsa infallibile per il compagno Alonso (che infatti vince).
Un anno dopo Piquet, appena licenziato dalla Renault per scarsità di risultati, si ricorda di quella losca storia, spiattella tutto e ottiene soddisfazione.
Può bastare? Diciamo di sì. Abbiamo percorso quasi un secolo di sport, spaziando da quelli di fatica a quelli di destrezza, da lestofanti europei a maneggioni d’Oltreoceano,da vecchie volpi a giovani sin troppo ambiziosi. Quanto al movente, sempre e solo quello di primeggiare, mettersi in luce, strappare un attimo di notorietà, beh, ci rassicura pienamente sul fatto che l’elenco sarà aggiornato a breve….

Nessun commento:

Posta un commento