giovedì 24 febbraio 2011

Eroi mancati: quando l’importante non è vincere (e forse neanche partecipare)


In principio fu Dorando Pietri. Chi non lo ricorda?
Dominare la maratona olimpica, stramazzare al suolo a cento metri dal traguardo, risollevarsi con l’aiuto di un paio di inservienti, ripiombare a terra stremato e perdere tutto.
Già: ma chi vinse la medaglia d’oro al suo posto? Pochissimi saprebbero rispondere (tale John Hayes, giusto per la cronaca).
Ecco, qualcuno che vedeva lontano (era il 1908, e lo sport-business era ancora di là da venire) capì quel giorno che vincere non è l’unico sistema, e forse neanche il più efficace, per diventare icone delle sport moderno.
Non sono infatti le vittorie in serie, quelle raccolte col pallottoliere per intenderci, a fare la storia.
Perché lo scudetto del Cagliari di Gigi Riva vale dieci e forse più di una Juventus trapattoniana; i 6 G.P. vinti da Gilles Villeneuve (niente di che, teoricamente, in 6 anni di Formula 1) pesano più dei 50 vinti da un Alain Prost; così come uno scatto di Pantani o certi slalom di Tomba resteranno indelebilmente scolpiti nella memoria più dei 5 Tour consecutivi o delle 4 Coppe del Mondo dei coevi Indurain e Zurbriggen.
Ma se per entrare nell’immortalità é determinante il “come” si vince, altrettanto funzionale allo scopo può essere il “come” si perde.
Ci sono perdenti indimenticabili per essersi giocati tutto in un istante, e aver fatto a brandelli l’insegnamento “carpe diem” di latina memoria.
Ci sono sconfitti “seriali”, veri Don Chisciotte all’ostinato inseguimento di chimerici traguardi sgusciati via come anguille per tutta la carriera.
E ci sono quelli che vinti, nel senso letterale del termine, non sono: perché alla contesa, per scelta o per destino, non hanno mai preso parte.
La nostra rassegna non può che partire dal ciclismo, che come nessun altro ha esplicitato il concetto di “perdente di successo”: perché solo uno sport che conosce la fatica vera, prolungata, sempre uguale, può portare  un rispetto così alto per lo sconfitto.
In questo senso la “maglia nera”, vessillo con cui é stato per anni contraddistinto l’ultimo classificato al Giro d’Italia, resta un’intuizione irripetibile,  monumento geniale quanto surreale ai militi ignoti di ogni sport.
Nessun altra manifestazione del globo terracqueo può vantare nella sua storia un premio del genere. Sì, il Sei Nazioni di rugby (già Cinque nazioni e ancor prima quattro), assegna da sempre a chi ha perso tutte le partite del torneo il celeberrimo “cucchiaio di legno”. Ma é riconoscimento per nulla ambito, figlio della goliardia di un ambiente che per decenni ha difeso strenuamente il dilettantismo come suo valore fondante.
Per indossare invece la “maglia nera”, assegnata dal 1946 al 1951 con tanto di classifica e regolamento apposito, ci si scannava, altroché.

La maglia nera tra la folla


Quelle 6 edizioni del Giro mettono in scena una grottesca corsa nella corsa, che giorno dopo giorno appassiona il pubblico e fa la fortuna dei protagonisti, altrimenti condannati da madre natura all’anonimato.
E’ così che il buon Luigi Malabrocca (che peraltro tanto brocco non era) entra nell’Olimpo delle figure indimenticabili del ciclismo del Dopoguerra.
Il nostro eroe vince le prime due edizioni accumulando complessivamente più di dieci ore di ritardo. Ma la notorietà e i guadagni che gli piovono addosso fanno aguzzare l’ingegno ai colleghi.
Così nel 1948 Malabrocca, nonostante le quasi otto ore di distacco da Fiorenzo Magni, é costretto ad accontentarsi del … penultimo posto, mentre nel 1949 dà vita ad un avvincente testa a testa senza esclusione di colpi (leggi finte forature, imboscamenti, malori inventati) col futuro vincitore Carollo che coinvolge gli appassionati quanto quello fra Coppi e Bartali.
Ma come dicevamo, si può entrare nel girone dei vinti pur essendo dei fuoriclasse acclarati, magari solo per aver perso qualche treno di troppo.
La Francia ciclistica, per esempio, ha avuto innumerevoli campioni, da Pelissier a Bobet, da Anquetil a Hinault. Ma nessuno é stato amato come Raymond Poulidor.
Un paradosso statistico su due ruote.
Corridore completo: potente, tenace e, cosa che rende ancor più incredibile la sua parabola, straordinariamente longevo (ben diciotto anni di professionismo).
Fra il suo primo podio al Tour de France (terzo nel 1962) e l’ultimo (terzo nel 1976), passano quattordici anni e dodici partecipazioni alla corsa più importante del panorama ciclistico, che fruttano altri tre terzi posti e altrettanti secondi.
Vittorie: zero. Si può arrivare otto volte sul podio e mai sul gradino più alto?
Sì, obietterà qualcuno, quando ti imbatti in gente come Merckx, Anquetil, Gimondi (un po’ meno quando si pensa a carneadi come Pingeon o Aimar).
Ma il dato che fa della carriera di “PouPou” un’anomalia senza precedenti é a ben vedere un altro.
In più di duecento tappe infatti Poulidor non riesce mai ad indossare neanche per un giorno la maglia gialla! Un privilegio, quello di trovarsi in testa alla classifica provvisoria del Giro di Francia, toccato dal 1903 ad oggi a qualcosa come 269 corridori: fuoriclasse e comprimari, capitani e gregari, velocisti e scalatori, ma mai al ciclista più amato dai Francesi.
Se i Mondiali stanno al calcio come il Tour de France sta al ciclismo, allora il Poulidor del pallone risponde al nome di Alfredo Di Stefano.
Il più grande giocatore del Mondo prima di Pelé (per alcuni anche dopo), porterà a termine una carriera onusta di gloria con un grande rimpianto, che già traspare da un’occhiata fugace al suo straripante palmares.
In sintesi: 5 Coppe dei Campioni consecutive, 13 scudetti, una Coppa Intercontinentale. Questo con le squadre di club. A livello di rappresentative nazionali, una misera Coppa America, conquistata a solo vent’anni. Poi il nulla: come possibile?
Diciamo pure che lui ci ha messo del suo. Non a caso abbiamo omesso la sua nazionalità: già, ma quale nazionalità?
Di Stefano nasce argentino, esplode nel River Plate di Buenos Aires, poi nel 1949 parte per la Colombia mosso dalla sua grande passione (il denaro) e trova giust'appunto ingaggio nei Milionarios (nomen omen).
Di Stefano diventa seduta stante cittadino colombiano, e veste per quattro volte la maglia della modesta Nazionale locale. Poco male, perché nel frattempo la federazione argentina ha rinunciato, per beghe burocratiche, a prende parte ai Mondiali del 1950, diniego che si ripeterà anche nel 1954.
Nel 1958 l’Argentina finalmente approda alla fase finale del Campionato del Mondo in Svezia, ma Di Stefano ha altro a cui pensare.
E’ diventato il leader indiscusso del Real Madrid, il club più forte d’Europa. Ma a livello di nazionale, Di Stefano persiste nel puntare sul cavallo sbagliato: nel 1956 diventa spagnolo (e sono tre…), ma le “Furie Rosse”, nonostante il suo apporto, mancano clamorosamente la qualificazione al Mondiale.
Finalmente, nel 1962, la Spagna e Di Stefano, ormai trentaseienne, sbarcano in Cile per i Mondiali che consacreranno il Brasile. Ma la maledizione continua: il vecchio Alfredo incappa in un infortunio che lo terrà ai box per tutta la manifestazione, e terminerà la carriera senza aver giocato neanche un minuto alla fase finale di un Mondiale.
Ci sono iatture, come quelle appena citate, che durano una carriera intera. E treni persi per un batter di ciglia, destinati a non ripassare più.
Mondiali 1972:  gli ultimi mille metri di Franco Bitossi detto “Cuore Matto” per via di una lieve ipertrofia cardiaca, diventano una scena cult nella storia del ciclismo.
Siamo a Gap (il nome non potrebbe essere più appropriato), e “Cuore Matto” é solo in testa: a distanza di sicurezza, quasi invisibili fra il capannello auto e moto dell’organizzazione, i connazionali Basso e Dancelli, saggiamente a ruota di sua Maestà Eddy Merckx, dell’olandese Zoetemelk,  del francese Guimard e del danese Mortensen.
C’é  vento contrario, il rettilineo é in leggera salita, ogni metro ne vale dieci. Dietro Merckx traina il gruppetto, che erode il distacco a occhio nudo: ma sembra solo un supplemento di suspence a beneficio del pubblico.
Poi Bitossi comincia ad arrancare, a spingere di spalle, come un motore che batte in testa. Sbanda, si guarda ossessivamente all’indietro: ma che ti giri a fare “Cuore Matto”? Mancheranno trenta metri…
Sono istanti strazianti: Marino Basso capisce l’antifona, parte come una schioppettata sulla destra del compagno stremato, poi s’infila sulla sinistra e taglia il traguardo a braccia alzate.



Bitossi passa la linea d’arrivo impietrito, solo in virtù di quel principio della fisica noto come forza d’inerzia. Secondo, ma solo perché il francese Guimard non riesce a scansare quella sorta di cetaceo spiaggiato in mezzo alla strada.
Certo in questi frangenti aiuta, e non poco, l’affetto del pubblico, la consapevolezza che la tua popolarità  non ti abbandoni e, anzi, ne esca paradossalmente accresciuta.
Perché c’é anche chi è passato dal trionfo all’anonimato più completo in un lampo.
Pasquale Fornara, piemontese, é uomo da corse a tappe fra i migliori degli anni ‘50. Il classico regolarista, un po’ anonimo, di quelli che non scaldano i cuori, anche perché dà il meglio di sé lontano dalle strade italiane (4 Giri di Svizzera e un Giro di Romandia gli varranno il soprannome “lo svizzero”).
Il Giro d’Italia del 1956 sembra però quello della consacrazione: vince la cronometro di 54 chilometri da Livorno a Lucca ( è la tredicesima tappa) e conquista la maglia, che conserva autorevolmente per una settimana.
Mancano tre tappe, é quasi fatta: ma il destino ha in serbo per lui altri progetti. L’apocalittica Merano-Monte Bondone, pietra miliare della storia delle due ruote.
La tempesta perfetta: nove ore di nevischio battente, di vento gelido a raffiche che scuote come banderuole i corridori sui 5 Gran Premi della Montagna disseminati lungo il percorso e posti ai piedi di altrettante vette dolomitiche travestite da mastodontiche stalagmiti.
In fuga c’é Charly Gaul, che é fuori classifica e non fa paura più di tanto. Ma mentre lo scalatore lussemburghese in maniche corte spiana con nonchalance una salita dopo l’altra, alle sue spalle i ritiri si contano a grappoli, così come i minuti di distacco che assumono via via contorni colossali.
Ogni aiuto é lecito. I più previdenti fanno tappa nelle farmacie dei paesini a fondovalle, gli altri si arrangiano cercando tepore in qualche baita lungo il percorso o rimediando bicchieri di grappa o thé caldo da qualche oste impietosito.
Fornara va in crisi nera, come tanti altri del resto, ma il suo Direttore Sportivo Giumanini, un brav’uomo ma forse non un cuor di leone, invece di incoraggiare “lo svizzero” a tener duro, lo convinca a ritirarsi, dichiarando all’arrivo: “gli voglio bene come un figlio, mi piangeva il cuore a vederlo soffrire così!”.
Morale: Charly Gaul vince il Giro ed entra nell’Olimpo del ciclismo come il più grande scalatore di tutti i tempi (almeno fino all’avvento di Pantani), mentre Fornara tornerà a far man bassa di Giri di Svizzera, dove evidentemente fa meno freddo che sulle nostre Dolomiti…
E che dire, per passare alle ruote motorizzate, del povero Felipe Massa, pacioso pilota brasiliano della Ferrari?
L’unico di questa carrellata di sportivi, lo anticipiamo, ad aver provato l’ebbrezza di sentirsi Campione del Mondo: e l’unico ad aver provato l’ebbrezza di perdere un Campionato del Mondo in un giro di lancetta.
E’ il 2008. Gran Premio del Brasile, ultima gara dell’anno. Massa, beniamino di casa, é secondo in classifica generale dietro Lewis Hamilton della McLaren. Servirebbe un miracolo, o quasi: stante la vittoria di Massa, Hamilton dovrebbe arrivare sesto o peggio.
Ed eccolo, il miracolo, sotto forma di un acquazzone che investe il circuito a una manciata giri dalla fine. Massa veleggia in testa, quando Hamilton, che fino allora ha ciondolato senza rischiare nulla fra il quarto e il quinto posto, viene clamorosamente sorpassato sotto il diluvio dall’enfant prodige  Vettel.
Hamilton si ritrova sesto, esattamente dove segretamente si sognava finisse, e sulle tribune esplode la festa.
Massa taglia il traguardo nel tripudio della “torcida” sugli spalti. Poi arrivano Alonso, Raikkonen e “Rain man” Vettel. Tocca al quinto classificato, Timo Glock su Toyota, ma quello che spunta dall’ultima curva non é affatto Glock: é Lewis Hamilton!
Nella sarabanda generale, pochi si sono infatti accorti che il pilota della Toyota era stato superato a un paio di curve dalla fine da Hamilton, complice proprio quel maledetto nubifragio improvviso (fino a poco prima provvidenziale)  che sorprende il povero Glock con le gomme da asciutto.
Restando in Brasile, peggio che piombare nell’anonimato é assurgere a icone di una sciagura nazionale.
Zizinho, Ademir, Flavio Costa. Chi sono costoro?
I primi due sono due assoluti fuoriclasse del calcio brasiliano anni ’40: regista il primo, centravanti sui generis il secondo. Il terzo è l’allenatore della Selecao che nel 1949 ha vinto la Coppa America segnando qualcosa come 46 goal in 8 partite.
Ma il Brasile calcistico di quegli anni ha in mente un solo obiettivo: il Mondiale casalingo del 1950, l’occasione perfetta per far entrare i tre sopraccitati nella storia con la “S” maiuscola.
Dopo una buona prima fase di torneo, infatti, la squadra di Flavio Costa ingrana la quinta nel girone finale: 7 a 1 alla Svezia campionessa olimpica in carica (con 4 goal di Ademir) e 6 a 1 alla Spagna (una rete di Zizinho).
E’ una cavalcata trionfale, cui manca solo l’apoteosi finale: la partita contro i vicini di casa uruguaiani, in uno stadio Maracanà invaso da duecentomila e più brasiliani in delirio.
Ciò che accade quel 16 luglio 1950 é talmente noto alle cronache calciofile che non val la pena dilungarsi particolarmente. Il Brasile va in vantaggio, poi subisce il pareggio; può bastare (era l’ultimo match e l’Uruguay era dietro di un punto), ma accecato dalla sua superbia si getta scriteriatamente in avanti e viene punito dagli infidi cugini.
La madre di tutte le sconfitte, uno degli esempi più fulgidi di masochismo e di insipienza mai offerti dallo sport di ogni tempo: ancora oggi il termine “Maracanazo”  é, da quelli parti, sinonimo di disastro epocale, né più né meno che il nostro “Caporetto”.
I suicidi, alcuni tentati (fra di essi il difensore Danilo Alvim), altri andati a buon fine (si fa per dire…), non si contano in tutto il paese, il radiocronista dell’evento si ritira a vita privata e la Selecao, onde evitare infausti influssi di quel giorno sciagurato, abbandona da allora la divisa bianca d’ordinanza per adottare la celebre maglia giallo canarino tutt’ora in uso.
Quanto ai nostri tre amici, peggio andrà al tecnico Flavio Costa. Minacciato di morte al pari del maldestro portiere Barbosa, fugge in Portogallo in attesa che si calmino le acque, ma avrà la soddisfazione di tornare sulla panchina della Selecao nel 1956.
C’é tutto un filone, per la verità, che riguarda le grandi Nazionali di calcio scivolate su una buccia di banana a un passo dalla gloria mondiale.
Quattro anni dopo il disastro del Maracanà, é l’immensa Ungheria di Puskas a capitolare inopinatamente di fronte a una modesta Germania Ovest. Col proprio leader acciaccato e in vantaggio di due goal dopo dieci minuti, i magiari si fanno rimontare da un avversario quasi sicuramente rinvigorito da sostanze illecite, ma pur sempre battuto pochi giorni prima, nel girone eliminatorio, per otto a tre.
C’é anche chi si é concesso il bis. E’ l’Olanda del “Calcio Totale”, indimenticabile complesso capace come nessun altro di provocare uno strappo secco e risolutivo con i suoi tempi, proiettando il football nella modernità.
Nel 1974 é la Germania Ovest padrone di casa (fortissima, stavolta) a rimontare Cruyff e soci, in vantaggio già al primo minuto. Quattro anni dopo ci pensa una traversa maledetta centrata da Rensenbrink a consegnare all’Argentina (anche lei Paese ospitante) il titolo iridato.
A proposito dei Mondiali argentini del 1978, é un calciatore di casa a rilanciare l’inquietante quesito del Nanni Moretti di  “Ecce Bombo”, se cioé l’assenza sia la condizione migliore per non passare inosservati.
Forse no: non in un Paese governato da una dittatura militare almeno. Jorge Carrascosa é il capitano di quella Nazionale Argentina che si appresta ad ospitare i Campionati del Mondo con un unico obiettivo: vincere, ad ogni costo.

Jorge Carrascosa

Sono gli anni dei desaparecidos, dei dissidenti buttati nell’Oceano Atlantico o gettati da aerei militari nei famigerati “voli della morte”,delle madri delle vittime che ogni giovedì si radunano a Plaza de Mayo invocando notizie sui propri figli.
La finale, cui l’Argentina approderà in virtù di una partita farsa contro il Perù, si disputa all’ Estadio Monumental, a un tiro di schioppo dall’ESMA, la scuola ufficiali della Marina Militare, riconvertita a luogo di tortura e prigionia.
C’é chi dice no, direbbe Vasco Rossi. Jorge Carrascosa lascia la Nazionale il calcio pochi mesi prima dell’inizio del Mondiale, a 29 anni, e l’anno successivo il calcio giocato: non una parola, né allora né in seguito.
Ad alzare la Coppa del Mondo, accanto a Videla e agli altri Generali, c’è così il suo sostituto, Daniel Passerella detto “El Caudillo” (traducibile con “il generale”, “il tiranno”).
Nella sbornia successiva al trionfo, molti si dimenticano alla svelta di Carrascosa, così come tanti perdono di vista, nei terribili anni ’40, il barone Gottfried Von Cramm.
Sontuoso fuoriclasse del tennis tedesco anni ‘30, di orientamenti sessuali poco consoni all’iconografia del perfetto guerriero ariano, vince tre volte il Roland Garros (due volte in singolare e una in doppio), e una volta, sempre in doppio, gli United States Open.
Ma é una sconfitta a renderlo celebre.
Coppa Davis 1937: gli Stati Uniti d’America contro la Germania Nazionalsocialista, Gottfried Von Cramm contro il grande Donald Budge.

Von Cramm vs Budge

E’ proprio il fuoriclasse americano a riferire di una presunta telefonata nell’imminenza del match, fra Von Cramm e Adolf Hitler, che raccomanda caldamente (eufemismo, conoscendo il soggetto) al compatriota di non deluderlo.
Quel che é certo é che l’austero barone tedesco, nonostante il sostegno del suo coach Bill Tilden (ironia della sorte, americano e pure lui gay), vive quella partita con un subbuglio interiore mai provato.
In vantaggio di 2 set a zero, concede il terzo e il quarto a Budge. Va in vantaggio 4 a 1 nel quinto, ma si fa rimontare ancora fino a soccombere per 8 a 6. Di proposito? Difficile da dimostrare: fatto sta che la Germania dovrà attendere il 1988 aggiudicarsi la celebre “insalatiera d’argento”.
Quanto a Von Cramm, l’inopinata sconfitta lo fa entrare a pieno titolo fra il novero dei “sorvegliati speciali”. Lui persiste nel manifestare il suo scarso trasporto per l’ideologia nazista e  finisce in galera per omosessualità. Dopo la guerra tornerà al tennis, con l’orgoglio di non essersi mai piegato al Regime.
Jorge Carrascosa e Gottfried Von Cramm: anche loro hanno perso l’appuntamento con la storia? Beh, lasciatecelo dire, dipende dai punti di vista…

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