mercoledì 9 marzo 2011

Eroi per caso (seconda parte)

E chiudiamo la nostra carrellata con lo sport più amato dagli italiani. Con una distinzione preliminare: quella fra squadre di calcio e singoli calciatori.
Nella prima categoria sono i Campionati Europei a vantare la casistica più succosa. Difficile, infatti, stabilire chi fra la Danimarca del 1992 e la Grecia del 2004 godesse della maggior considerazione alla vigilia del torneo: é un po’ come chiedersi se in una gara di Formula 1 ha più chances di vittoria una Panda o una Smart.
La Danimarca neanche si era qualificata. Ripescata per via del forfait della Yugoslavia ormai prossima allo smembramento: e ripescati (in mare) i giocatori, ormai spaparanzati sulle spiagge di mezzo mondo a godersi le meritate ferie.
Non bastasse la preparazione a dir poco approssimativa, la compagine danese deve fare a meno del suo unico fuoriclasse, Michael Laudrup, in pessimi rapporti col tecnico Moller Nielsen.
Ma quando il fato ha benedetto il tuo cammino, nessun ostacolo é insormontabile: i danesi fanno fuori nel girone eliminatorio la Francia allenata da Platini, poi in semifinale l’Olanda del trio Van Basten-Rijkaard-Gullit, e in finale la Germania Campione del Mondo in carica.
Eroe del torneo, tale Henrik Larsen. Tutto quello che s’immagina di un danese: biondissimo, guance paonazze, fisico massiccio e sguardo gnucco.
Il Presidente del Pisa, Romeo Anconetani (fiuto da segugio) lo aveva ingaggiato due anni prima per un pugno di lenticchie. Ma sotto la Torre Pendente, Larsen non lascia grandi ricordi, la squadra retrocede e Anconetani lo rimanda in prestito in madrepatria.


Henrik Larsen, eroe dell'Europeo '92



Il buon Romeo non crede ai suoi occhi quando se lo ritrova fra i piedi con il titolo di Campione d’Europa appuntato sul petto muscoloso. Sulle prime cerca di arruolarlo alla causa del Pisa ancora impantanato in seconda serie (si è mai visto il capocannoniere di un Europeo marcire in Serie B?), ma poi cerca di rifilarlo a mezza Europa, dove ben presto tornerà ad essere quello che é sempre stato: un giocatore men che mediocre.
Passano dodici anni e il Portogallo che ha appena celebrato la strepitosa vittoria del Porto di Mourinho in Champions League, ospita i Campionati Europei per la prima volta.
La prima partita, nel nuovissimo stadio Dragao di Oporto, vede di fronte i padroni di casa, allenati da Felipe Scolari (brasiliano vincitore del titolo iridato due anni prima), e la Grecia del tedesco Otto Rehhagel.
Facile pensare che quel match sarà la prima esibizione della squadra futura Campione d’Europa: assolutamente impossibile immaginare che quella squadra non é il Portogallo.
Vince la Grecia, ma sembra una casualità, un risultato beffardo dettato non dalla qualità degli ellenici ma dall’emotività dei lusitani, cui evidentemente la pressione dell’esordio ha giocato un brutto tiro.
La Grecia é una squadra esperta, ma senza campioni. Ha un attacco scalcinato come pochi, e un  allenatore che sembra un residuato bellico.
Rehhagel é stato uno dei migliori allenatori tedeschi degli anni Ottanta e Novanta. Ma ormai va per i sessantasei, ha un colore di capelli improponibile (tinta o parrucchino?), e pratica un calcio antidiluviano: zeppo di difensori e con un libero stile anni Sessanta a spazzare l’area senza complimenti.
Roba da far sembrare perfino il Trap un rivoluzionario: e infatti la Grecia va che é un piacere. Passa il primo turno in virtù di quel successo iniziale, poi sconfigge la Francia di Zidane agli Quarti e la Repubblica Ceca di Nedved in Semifinale.
I protagonisti dell’ultimo atto sono i medesimi del primo: Grecia e Portogallo. Ma i lusitani sono molto cresciuti nel corso del torneo, e quel capitombolo iniziale fa sì che gli ellenici stavolta non possano contare sull’effetto sorpresa.
I miracoli non si ripetono: di solito. Perché basta un goal di Angelos Charisteas, attaccante dalle modestissime medie realizzative, a dare il titolo agli uomini di “nonno” Rehhagel.
Un mese dopo il capitano degli ellenici, Theodoros Zagorakis,  é il fiore all’occhiello della campagna acquisti del Bologna: che a fine stagione retrocede in Serie B…
Quanto alle squadre di club, meritano una menzione il Videoton e il Deportivo Alaves: autrici di due imprese sfortunate quanto inimmaginabili.
Il Videoton é una compagine ungherese che prende il nome dall’azienda di materiale elettronico che la sponsorizza. In realtà é stata fondata nel 1941 col nome di Vadásztölténygyár Székesfehérvár (il secondo scioglilingua é il nome della città ...).
Dove può andare una squadra con un nome del genere? Da nessuna parte: e infatti in quarantacinque anni di storia raggranella solo una finale di Coppa di Ungheria nel 1976.
Fino al 1984. Terza in campionato dietro a Honved e Gyori Eto, si qualifica per la Coppa Uefa, dove si trasforma in una macchina da guerra.
Giustizia nell’ordine Dukla Praga, Paris Saint Germain, Partizan Belgrado, il Manchester United  ai rigori, e infine Zeljeznicar Sarajevo.
In finale trova il Real Madrid di Butragueno, Michel e Valdano, che ha appena eliminato l’Inter (nel celebre match in cui Bergomi viene colpito da una biglia). E’ un triste ritorno sulla terra: a Székesfehérvár le “merengues” passeggiano con un perentorio 3 a 0.
La favola é finita, ma c’é un ultimo colpo di coda: nella gara di ritorno il Videoton ha la soddisfazione di espugnare il Bernabeu con un goal nel finale di Lajos Majer.
Il Videoton come la Honved di Puskas e compagnia? Non esattamente. L’anno successivo, ai Mondiali messicani, solo 3 giocatori faranno parte di una rappresentativa ungherese peraltro in deprimente declino, e uno solo (il portiere Disztl) vedrà il campo…
Destino analogo tocca al Deportivo Alaves, compagine di Vitoria (capoluogo dei Paesi Baschi), protagonista assoluta della Coppa UEFA 2000/2001.
Un club che per gran parte della sua storia ha bazzicato fra seconda e terza divisione, con 7 stagioni nella massima serie e un sesto posto (quello del 2000 appunto) come fiore all’occhiello. Il suo giocatore più famoso é Cruyff. Non l’immenso Johan, ma il figlio Jordi: a volte ci si deve accontentare…

La divisa dell'Alaves firmata dai soci

L’Alaves elimina i turchi del Gaziantepsor, i norvegesi del Lillestroem e del Rosenborg e pesca negli Ottavi la scalcinata Inter di Marco Tardelli.
Dopo un rocambolesco 3 a 3 a Vitoria, i baschi si presentano a San Siro con un’equivoca divisa fucsia e timide speranze di sfangarla.
E’ il punto più basso dell’Inter morattiana (parte prima): quella che sostituiva i carabinieri nelle barzellette da bar.


L’Alaves segna con Tomic (ex romanista per nulla rimpianto), poi con Cruyff junior. Il popolo nerazzurro esplode la sua frustrazione lanciando in campo di tutto, l’arbitro prima sospende la partita poi ne decreta la fine in ampio anticipo.
L’Alaves prosegue il suo avventuroso cammino eliminando i connazionali del Rayo Vallecano e il Kaiserslautern, guadagnandosi la finale.
Contro il Liverpool di Gerrard e Owen indossa una maglia su cui sono apposte le firme di tutti i soci del club, e gioca una partita epica.
Dopo un quarto d’ora é già sotto di 2 goal, poi accorcia le distanze con Alonso ma incassa il 3 a 1 su rigore. Nella ripresa il bomber Javi Moreno fa 2 goal in 3 minuti e pareggia; il Liverpool si riporta in vantaggio, ma all’ultimo minuto Cruyff junior (ormai un idolo) segna il pirotecnico 4 a 4.
Tempi supplementari: l’Alaves rimane in 10 uomini, poi addirittura in 9. Ma sulla punizione conseguenza del fallo da espulsione di Karmona, l’eroico difensore Geli devia inopinatamente di testa nella propria porta, e il Liverpool vince.
Se Cruyff resterà a Vitoria senza più ripetersi su quei livelli, l’infallibile centravanti Javi Moreno e il terzino Contra passeranno al Milan per una cifra astronomica: entrambi verranno scaricati per disperazione dopo una sola stagione…
Passando ai singoli giocatori, viene subito in mente il dentista coreano Pak Doo Ik. L’uomo che affonda l’Italia di Edmondo Fabbri (e di Rivera, Facchetti, Mazzola …) ai Mondiali del 1966. Il quale, per inciso, non era affatto un dentista, ma poco importa: la qualifica professionale rendeva l’idea dell’estemporaneità dell’impresa, e fu tramandata ai posteri come accessorio indispensabile alla narrazione.
Dato che la storia di Pak Doo Ik ci pare sin troppo inflazionata, preferiamo celebrare un antenato dell’attaccante coreano, nato dalla parte opposta del Pacifico: il suo nome é Joe Gaetjens.
Sono i Campionati del Mondo del 1950: quelli che si chiuderanno con la sciagurata sconfitta del Brasile padrone di casa. Ma quella edizione, oltre ad essere la prima post Seconda Guerra Mondiale, é destinata a passare alla storia per un altro motivo.
E’ infatti il debutto ai Mondiali dell’Inghilterra, la culla del football.
Sino ad allora, infatti, gli inventori del gioco del calcio erano rimasti chiusi nel loro altezzoso isolamento. Presentandosi al massimo alle Olimpiadi con raffazzonate rappresentative di studenti: battenti peraltro, si badi bene, bandiera della Gran Bretagna globalmente intesa.
E’ una squadra, quella inglese, che può contare sull’immenso Stanley Matthews; sul suo compagno nel Blackpool, Stan Mortensen; su un giovane Billy Wright (sarà capitano dell’Inghilterra per 90 partite); e su Alf Ramsey, futuro allenatore dell’unica Inghilterra Campione del Mondo (anno 1966).
Due anni prima, in amichevole, ci avevano stritolato a Torino, (eravamo pur sempre i Campioni del Mondo in carica)  con un inequivocabile 4 a 0. Indimenticabile il goal, con un tiro praticamente dalla linea di fondo, di Mortensen: al punto da far nascere la locuzione “goal alla Mortensen”.

Joe Gaetjens portato in trionfo

Tre mesi dopo quella batosta la rappresentativa studentesca italiana si presenta alle Olimpiadi, dove debutta con un 9 a 0 agli USA. Tenete bene a mente i due parziali, Inghilterra batte Italia 4 a 0 e Italia giovanile batte USA 9 a 0, perché danno la giusta taratura del valore delle contendenti.
L’Inghilterra bagna il suo esordio ai Mondiali brasiliani con un 2 a 0 di prammatica al Cile, e i padroni di casa cominciano a tremare. Gli avversari successivi sono proprio gli USA.
Tre dei giocatori a stelle e strisce sono gli stessi ridicolizzati 2 anni prima dall’Italia olimpica: Bahr, Souza e Colombo (Charlie, non Cristoforo). Gli altri, fra cui saltano all’occhio i nomi di Frank Borghi e Gino Pariani, non sembrano meglio.
Così, quando in Inghilterra giunge via telegrafo il risultato della partita, “Inghilterra 0 – USA 1”, qualcuno lì per lì pensa a un errore di battitura: “dev’essere Inghilterra 10 – USA 1”.
Non c’era alcun errore: mentre nel Regno Unito continuavano a cantarsela e suonarsela per conto loro, il mondo era andato avanti, e loro se n’erano accorti.
L’atroce disfatta inglese per mano degli ex coloni, porta la firma appunto di Joe Gaetjens, che intercetta di testa un tiro di Bahr.
Ventiseienne attaccante mulatto, di madre haitiana e padre tedesco, militante nel Brookhattan di New York. Potremmo dilungarci oltre sulla sua biografia, ma non ne vale francamente la pena: la verità é che l’apporto di Gaetjens alla storia del pallone si apre e si chiude con quel bislacco colpo di testa.
Chiudiamo con un eroe per caso veramente sui generis. Non un carneade: anzi, un grandissimo della sua epoca. Che tuttavia é passato alla storia non per i suoi goal, ma per un modo di dire.
Chi non ha mai usato l’espressione “in zona Cesarini”? Ora  che anche la politica attinge a piene mani al linguaggio sportivo, la locuzione ha ritrovato vigore anche i TV, indicando un avvenimento risolutivo accaduto in extremis, nell’ultimo istante utile.
Renato Cesarini nasce nelle Marche nel 1906, giusto in tempo per salpare verso l’Argentina al seguito di una famiglia poverissima. Torna in Italia nel 1930, alla Juve, da divo del pallone: si divide fra calcio e tango, fuma come un turco, gira con una scimmietta sulla spalla e si allena fra una tappa al bordello e l’altra.
Tipo interessante. Però se dopo ottant’anni ci si ricorda di lui é solo ed esclusivamente per quella benedetta espressione, “zona Cesarini”.
Che accidenti avrà combinato il nostro calciatore-ballerino?
Poco: anzi, nulla, dopo aver conosciuto il tenore del personaggio. Il primo novembre 1931 segna all’ultimo minuto contro l’Alessandria (goal peraltro ininfluente, era il 3 a 0). Si ripete il 13 dicembre in Nazionale in un match combattutissimo contro l’Ungheria.
La domenica successiva tale Visentin dà la vittoria all’Inter (allora Ambrosiana) contro la Roma, con un goal al minuto 89. Il cronista di turno scrive “Visentin segna in zona Cesarini!” e il gioco é fatto: i colleghi riprendono l’espressione, che  passa di bocca in bocca, trova ospitalità in ambiti diversi da quelli sportivi, ed eccola approdare ai giorni nostri.
Tutto qua: in fondo, ci vuole tanto per passare alla storia?

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