mercoledì 9 marzo 2011

Eroi per caso (seconda parte)

E chiudiamo la nostra carrellata con lo sport più amato dagli italiani. Con una distinzione preliminare: quella fra squadre di calcio e singoli calciatori.
Nella prima categoria sono i Campionati Europei a vantare la casistica più succosa. Difficile, infatti, stabilire chi fra la Danimarca del 1992 e la Grecia del 2004 godesse della maggior considerazione alla vigilia del torneo: é un po’ come chiedersi se in una gara di Formula 1 ha più chances di vittoria una Panda o una Smart.
La Danimarca neanche si era qualificata. Ripescata per via del forfait della Yugoslavia ormai prossima allo smembramento: e ripescati (in mare) i giocatori, ormai spaparanzati sulle spiagge di mezzo mondo a godersi le meritate ferie.
Non bastasse la preparazione a dir poco approssimativa, la compagine danese deve fare a meno del suo unico fuoriclasse, Michael Laudrup, in pessimi rapporti col tecnico Moller Nielsen.
Ma quando il fato ha benedetto il tuo cammino, nessun ostacolo é insormontabile: i danesi fanno fuori nel girone eliminatorio la Francia allenata da Platini, poi in semifinale l’Olanda del trio Van Basten-Rijkaard-Gullit, e in finale la Germania Campione del Mondo in carica.
Eroe del torneo, tale Henrik Larsen. Tutto quello che s’immagina di un danese: biondissimo, guance paonazze, fisico massiccio e sguardo gnucco.
Il Presidente del Pisa, Romeo Anconetani (fiuto da segugio) lo aveva ingaggiato due anni prima per un pugno di lenticchie. Ma sotto la Torre Pendente, Larsen non lascia grandi ricordi, la squadra retrocede e Anconetani lo rimanda in prestito in madrepatria.


Henrik Larsen, eroe dell'Europeo '92



Il buon Romeo non crede ai suoi occhi quando se lo ritrova fra i piedi con il titolo di Campione d’Europa appuntato sul petto muscoloso. Sulle prime cerca di arruolarlo alla causa del Pisa ancora impantanato in seconda serie (si è mai visto il capocannoniere di un Europeo marcire in Serie B?), ma poi cerca di rifilarlo a mezza Europa, dove ben presto tornerà ad essere quello che é sempre stato: un giocatore men che mediocre.
Passano dodici anni e il Portogallo che ha appena celebrato la strepitosa vittoria del Porto di Mourinho in Champions League, ospita i Campionati Europei per la prima volta.
La prima partita, nel nuovissimo stadio Dragao di Oporto, vede di fronte i padroni di casa, allenati da Felipe Scolari (brasiliano vincitore del titolo iridato due anni prima), e la Grecia del tedesco Otto Rehhagel.
Facile pensare che quel match sarà la prima esibizione della squadra futura Campione d’Europa: assolutamente impossibile immaginare che quella squadra non é il Portogallo.
Vince la Grecia, ma sembra una casualità, un risultato beffardo dettato non dalla qualità degli ellenici ma dall’emotività dei lusitani, cui evidentemente la pressione dell’esordio ha giocato un brutto tiro.
La Grecia é una squadra esperta, ma senza campioni. Ha un attacco scalcinato come pochi, e un  allenatore che sembra un residuato bellico.
Rehhagel é stato uno dei migliori allenatori tedeschi degli anni Ottanta e Novanta. Ma ormai va per i sessantasei, ha un colore di capelli improponibile (tinta o parrucchino?), e pratica un calcio antidiluviano: zeppo di difensori e con un libero stile anni Sessanta a spazzare l’area senza complimenti.
Roba da far sembrare perfino il Trap un rivoluzionario: e infatti la Grecia va che é un piacere. Passa il primo turno in virtù di quel successo iniziale, poi sconfigge la Francia di Zidane agli Quarti e la Repubblica Ceca di Nedved in Semifinale.
I protagonisti dell’ultimo atto sono i medesimi del primo: Grecia e Portogallo. Ma i lusitani sono molto cresciuti nel corso del torneo, e quel capitombolo iniziale fa sì che gli ellenici stavolta non possano contare sull’effetto sorpresa.
I miracoli non si ripetono: di solito. Perché basta un goal di Angelos Charisteas, attaccante dalle modestissime medie realizzative, a dare il titolo agli uomini di “nonno” Rehhagel.
Un mese dopo il capitano degli ellenici, Theodoros Zagorakis,  é il fiore all’occhiello della campagna acquisti del Bologna: che a fine stagione retrocede in Serie B…
Quanto alle squadre di club, meritano una menzione il Videoton e il Deportivo Alaves: autrici di due imprese sfortunate quanto inimmaginabili.
Il Videoton é una compagine ungherese che prende il nome dall’azienda di materiale elettronico che la sponsorizza. In realtà é stata fondata nel 1941 col nome di Vadásztölténygyár Székesfehérvár (il secondo scioglilingua é il nome della città ...).
Dove può andare una squadra con un nome del genere? Da nessuna parte: e infatti in quarantacinque anni di storia raggranella solo una finale di Coppa di Ungheria nel 1976.
Fino al 1984. Terza in campionato dietro a Honved e Gyori Eto, si qualifica per la Coppa Uefa, dove si trasforma in una macchina da guerra.
Giustizia nell’ordine Dukla Praga, Paris Saint Germain, Partizan Belgrado, il Manchester United  ai rigori, e infine Zeljeznicar Sarajevo.
In finale trova il Real Madrid di Butragueno, Michel e Valdano, che ha appena eliminato l’Inter (nel celebre match in cui Bergomi viene colpito da una biglia). E’ un triste ritorno sulla terra: a Székesfehérvár le “merengues” passeggiano con un perentorio 3 a 0.
La favola é finita, ma c’é un ultimo colpo di coda: nella gara di ritorno il Videoton ha la soddisfazione di espugnare il Bernabeu con un goal nel finale di Lajos Majer.
Il Videoton come la Honved di Puskas e compagnia? Non esattamente. L’anno successivo, ai Mondiali messicani, solo 3 giocatori faranno parte di una rappresentativa ungherese peraltro in deprimente declino, e uno solo (il portiere Disztl) vedrà il campo…
Destino analogo tocca al Deportivo Alaves, compagine di Vitoria (capoluogo dei Paesi Baschi), protagonista assoluta della Coppa UEFA 2000/2001.
Un club che per gran parte della sua storia ha bazzicato fra seconda e terza divisione, con 7 stagioni nella massima serie e un sesto posto (quello del 2000 appunto) come fiore all’occhiello. Il suo giocatore più famoso é Cruyff. Non l’immenso Johan, ma il figlio Jordi: a volte ci si deve accontentare…

La divisa dell'Alaves firmata dai soci

L’Alaves elimina i turchi del Gaziantepsor, i norvegesi del Lillestroem e del Rosenborg e pesca negli Ottavi la scalcinata Inter di Marco Tardelli.
Dopo un rocambolesco 3 a 3 a Vitoria, i baschi si presentano a San Siro con un’equivoca divisa fucsia e timide speranze di sfangarla.
E’ il punto più basso dell’Inter morattiana (parte prima): quella che sostituiva i carabinieri nelle barzellette da bar.


L’Alaves segna con Tomic (ex romanista per nulla rimpianto), poi con Cruyff junior. Il popolo nerazzurro esplode la sua frustrazione lanciando in campo di tutto, l’arbitro prima sospende la partita poi ne decreta la fine in ampio anticipo.
L’Alaves prosegue il suo avventuroso cammino eliminando i connazionali del Rayo Vallecano e il Kaiserslautern, guadagnandosi la finale.
Contro il Liverpool di Gerrard e Owen indossa una maglia su cui sono apposte le firme di tutti i soci del club, e gioca una partita epica.
Dopo un quarto d’ora é già sotto di 2 goal, poi accorcia le distanze con Alonso ma incassa il 3 a 1 su rigore. Nella ripresa il bomber Javi Moreno fa 2 goal in 3 minuti e pareggia; il Liverpool si riporta in vantaggio, ma all’ultimo minuto Cruyff junior (ormai un idolo) segna il pirotecnico 4 a 4.
Tempi supplementari: l’Alaves rimane in 10 uomini, poi addirittura in 9. Ma sulla punizione conseguenza del fallo da espulsione di Karmona, l’eroico difensore Geli devia inopinatamente di testa nella propria porta, e il Liverpool vince.
Se Cruyff resterà a Vitoria senza più ripetersi su quei livelli, l’infallibile centravanti Javi Moreno e il terzino Contra passeranno al Milan per una cifra astronomica: entrambi verranno scaricati per disperazione dopo una sola stagione…
Passando ai singoli giocatori, viene subito in mente il dentista coreano Pak Doo Ik. L’uomo che affonda l’Italia di Edmondo Fabbri (e di Rivera, Facchetti, Mazzola …) ai Mondiali del 1966. Il quale, per inciso, non era affatto un dentista, ma poco importa: la qualifica professionale rendeva l’idea dell’estemporaneità dell’impresa, e fu tramandata ai posteri come accessorio indispensabile alla narrazione.
Dato che la storia di Pak Doo Ik ci pare sin troppo inflazionata, preferiamo celebrare un antenato dell’attaccante coreano, nato dalla parte opposta del Pacifico: il suo nome é Joe Gaetjens.
Sono i Campionati del Mondo del 1950: quelli che si chiuderanno con la sciagurata sconfitta del Brasile padrone di casa. Ma quella edizione, oltre ad essere la prima post Seconda Guerra Mondiale, é destinata a passare alla storia per un altro motivo.
E’ infatti il debutto ai Mondiali dell’Inghilterra, la culla del football.
Sino ad allora, infatti, gli inventori del gioco del calcio erano rimasti chiusi nel loro altezzoso isolamento. Presentandosi al massimo alle Olimpiadi con raffazzonate rappresentative di studenti: battenti peraltro, si badi bene, bandiera della Gran Bretagna globalmente intesa.
E’ una squadra, quella inglese, che può contare sull’immenso Stanley Matthews; sul suo compagno nel Blackpool, Stan Mortensen; su un giovane Billy Wright (sarà capitano dell’Inghilterra per 90 partite); e su Alf Ramsey, futuro allenatore dell’unica Inghilterra Campione del Mondo (anno 1966).
Due anni prima, in amichevole, ci avevano stritolato a Torino, (eravamo pur sempre i Campioni del Mondo in carica)  con un inequivocabile 4 a 0. Indimenticabile il goal, con un tiro praticamente dalla linea di fondo, di Mortensen: al punto da far nascere la locuzione “goal alla Mortensen”.

Joe Gaetjens portato in trionfo

Tre mesi dopo quella batosta la rappresentativa studentesca italiana si presenta alle Olimpiadi, dove debutta con un 9 a 0 agli USA. Tenete bene a mente i due parziali, Inghilterra batte Italia 4 a 0 e Italia giovanile batte USA 9 a 0, perché danno la giusta taratura del valore delle contendenti.
L’Inghilterra bagna il suo esordio ai Mondiali brasiliani con un 2 a 0 di prammatica al Cile, e i padroni di casa cominciano a tremare. Gli avversari successivi sono proprio gli USA.
Tre dei giocatori a stelle e strisce sono gli stessi ridicolizzati 2 anni prima dall’Italia olimpica: Bahr, Souza e Colombo (Charlie, non Cristoforo). Gli altri, fra cui saltano all’occhio i nomi di Frank Borghi e Gino Pariani, non sembrano meglio.
Così, quando in Inghilterra giunge via telegrafo il risultato della partita, “Inghilterra 0 – USA 1”, qualcuno lì per lì pensa a un errore di battitura: “dev’essere Inghilterra 10 – USA 1”.
Non c’era alcun errore: mentre nel Regno Unito continuavano a cantarsela e suonarsela per conto loro, il mondo era andato avanti, e loro se n’erano accorti.
L’atroce disfatta inglese per mano degli ex coloni, porta la firma appunto di Joe Gaetjens, che intercetta di testa un tiro di Bahr.
Ventiseienne attaccante mulatto, di madre haitiana e padre tedesco, militante nel Brookhattan di New York. Potremmo dilungarci oltre sulla sua biografia, ma non ne vale francamente la pena: la verità é che l’apporto di Gaetjens alla storia del pallone si apre e si chiude con quel bislacco colpo di testa.
Chiudiamo con un eroe per caso veramente sui generis. Non un carneade: anzi, un grandissimo della sua epoca. Che tuttavia é passato alla storia non per i suoi goal, ma per un modo di dire.
Chi non ha mai usato l’espressione “in zona Cesarini”? Ora  che anche la politica attinge a piene mani al linguaggio sportivo, la locuzione ha ritrovato vigore anche i TV, indicando un avvenimento risolutivo accaduto in extremis, nell’ultimo istante utile.
Renato Cesarini nasce nelle Marche nel 1906, giusto in tempo per salpare verso l’Argentina al seguito di una famiglia poverissima. Torna in Italia nel 1930, alla Juve, da divo del pallone: si divide fra calcio e tango, fuma come un turco, gira con una scimmietta sulla spalla e si allena fra una tappa al bordello e l’altra.
Tipo interessante. Però se dopo ottant’anni ci si ricorda di lui é solo ed esclusivamente per quella benedetta espressione, “zona Cesarini”.
Che accidenti avrà combinato il nostro calciatore-ballerino?
Poco: anzi, nulla, dopo aver conosciuto il tenore del personaggio. Il primo novembre 1931 segna all’ultimo minuto contro l’Alessandria (goal peraltro ininfluente, era il 3 a 0). Si ripete il 13 dicembre in Nazionale in un match combattutissimo contro l’Ungheria.
La domenica successiva tale Visentin dà la vittoria all’Inter (allora Ambrosiana) contro la Roma, con un goal al minuto 89. Il cronista di turno scrive “Visentin segna in zona Cesarini!” e il gioco é fatto: i colleghi riprendono l’espressione, che  passa di bocca in bocca, trova ospitalità in ambiti diversi da quelli sportivi, ed eccola approdare ai giorni nostri.
Tutto qua: in fondo, ci vuole tanto per passare alla storia?

Eroi per caso

La Gialappa’s band ne ha fatto uno zimbello, il popolo di Internet (e di Youtube in particolare) lo ha eletto a icona dei nostri tempi.
Steven Bradbury é un misconosciuto pattinatore su ghiaccio australiano che si disimpegna nello “short track”: un videogioco più che uno sport (diventato chissà come disciplina olimpica), dove i concorrenti girano in tondo su una pista che sembra una rondò, sistematicamente sghembi e con la mano sinistra sul ghiaccio per non perdere l’equilibrio.
Uno che a occhio non pare esattamente baciato dal destino.
Dopo un inizio di carriera entusiasmante con tanto di medaglie olimpiche e mondiali in staffetta (primi riconoscimenti in uno sport invernale per la terra dei canguri), nel 1994 il nostro Mirko Vuillermin gli taglia accidentalmente l’arteria femorale con la lama del pattino, e Bradbury rischia di morire dissanguato.
Ritorna dopo un anno e passa di convalescenza, ma le Olimpiadi del 1998 gli dicono malissimo: finisce gambe all’aria in entrambe le gare individuali disputate, causa collisioni con altri concorrenti.


E’ un crescendo rossiniano di disgrazie: nel 2000 si fracassa due vertebre cervicali franando contro le barriere di recinzione, nel tentativo di scansare maldestramente l’ennesimo avversario in agguato.
Il Bradbury che si presenta testardamente alle Olimpiadi invernali del 2002 è, insomma, un miracolato, un Enrico Toti dello sport: e pure un inno alla sfiga.
Ma il destino sta per svoltare: nei quarti di finale dei 1.000 metri il favorito canadese Gagnon sperona il giapponese Tamura, viene squalificato e Bradbury, che veleggiava in terza posizione, passa il turno come secondo dietro il fortissimo statunitense Ohno.
Meglio ancora in semifinale: il coreano  Kim Dong-Sung va per le terre per colpa del cinese Li Jiajun, a sua volta trascinato a terra dal canadese Turcotte. Bradbury, che ahi lui assisteva alla scena da debita distanza, si ritrova secondo: anzi primo, perché pure il giapponese Terao viene squalificato.
E siamo alla finale. Bradbury, ingobbito e macchinoso, inizia l’ultimo giro col solito distacco siderale dai quattro di testa.
Il terribile Li Jiajun si prende a spallate con lo statunitense Ohno e parte per la tangente. Ohno lotta con la forza centrifuga e arpiona con un braccio il coreano Ahn Hyun-Soo, che cade trascinando con sé Ohno e  il canadese Turcotte. Mentre tutti finiscono in un groviglio laocoontico, da dietro arriva col suo passo flemmatico il buon Bradbury, che taglia il traguardo quasi mortificato, da neo campione olimpico.
Quella di Steven Bradbury é la storia di un atleta preso letteralmente in ostaggio da un Fato capriccioso che lo sballotta per tutta la carriera fra sciagure fantozziane e colpi di fortuna troppo eclatanti per trarne una morale: un caso limite, si dice in questi casi, che come tale non può fare scuola.
Ma quel Fato tiranno ha certo trovato, nel mondo dello sport, terreno fertile per mostrare i muscoli a inermi atleti di ogni ordine e grado.
E’ in fondo il rovescio della medaglia della disamina fatta precedentemente sugli eroi mancati: ecco i Signor Nessuno che sono riusciti  laddove quei campioni celebrati hanno fallito.
Ci sono, del resto, discipline in cui basta una frazione di secondo per risolvere in un modo o nell’altro, la contesa: e non c’é curriculum che tenga.
Il fatto é che solitamente fa parte del corredo genetico dei più forti l’essere infallibili, e pure fortunati, quando la posta in gioco sale: se non altro per una questione di abitudine a certi contesti.
La fortuna, insomma, aiuta gli audaci, ma ancor più spesso i migliori. Certo si manifesta il più delle volte come un Sole arroventato che scioglie le ali ai tanti Icaro alle prese coi primi tentativi di decollo.
Ma non é sempre così: a volte prende per mano avventurieri e mezze figure, e li conduce amorevolmente come Cenerentole, se non proprio al Gran Ballo, quantomeno a un estemporaneo giro di valzer con la notorietà.
In piccolo, qualcosa di simile al melodramma di Bradbury accade, nel 1988, al nostro Maurizio Fondriest.
Siamo ai Mondiali di ciclismo di Renaix, dove evidentemente tira una strana aria per i favoriti dal pronostico. Venticinque anni prima il paesino fiammingo fu infatti teatro del grande tradimento (citato nell’articolo sulle grandi truffe) del gregario Beheyt a danno di Rik Van Looy.
Fondriest, allora giovane promessa al secondo anno da professionista, si presenta all’ultimo chilometro a braccetto con l’idolo di casa, lo sgamato Claude Criquielion, quando da dietro irrompe il canadese Steve Bauer, recente quarto classificato al Tour de France. Il trentino, ormai esausto, assiste impotente alla volata dei due più titolati avversari.
Bauer parte per primo, in colpevole anticipo; Criquielion cerca di rimontarlo sul fianco destro, pare riuscirci, ma il canadese lo spinge contro le transenne provocandone la spaventosa caduta. Bauer perde velocità nell’impatto (sarebbe stato comunque squalificato) e Fondriest si ritrova per magia Campione del Mondo.
C’é anche chi ha terminato un Tour de France da vincitore senza neanche saperlo. E’ accaduto a Henri Cornet nel lontano 1904.
E’ il secondo Tour della storia, e l’ordine d’arrivo ricalca, quanto ai primi due posti, quello dell’anno precedente: primo lo spazzacamino franco-valdostano Maurice Garin, secondo Lucien Pothier; a seguire Cesar Garin, fratellino di Maurice,  Hypolite Aucouturier e il diciannovenne Cornet.
Ma é un Tour che al suo inventore Desgranges, novello dottor Frankenstein, farà venire seri dubbi sulla bontà della propria creatura.
Il clou sul Col de la Republique, quando i tifosi dell’idolo di casa Fauré,  cercano di linciare il gruppo inseguitore (fra i più malconci il leggendario “diavolo rosso” Gerbi) nel tentativo di agevolare la fuga del loro protetto. Il resto é una sfida senza esclusione di colpi fra supporter indemoniati e concorrenti truffaldini.
Dopo mesi di furibonde discussioni, i primi quattro della classifica verranno squalificati. E così l’imberbe Cornet, a sua volta vittima di diabolici sabotaggi, si troverà vincitore.
Restiamo in Francia, con un salto temporale di ottanta e più anni, per celebrare un altro “eroe per caso” poco più che adolescente.
E’ la primavera del 1989, e mentre il mondo é sconvolto dalle proteste degli studenti cinesi a Piazza Tienanmen, nella vezzosa cornice parigina del Roland Garros va in scena il più importante torneo tennistico su terra battuta.
Che c’entra? C’entra, perché il filo rosso che lega questi due avvenimenti così distanti é un esile ragazzino dagli occhi a mandorla.
Si chiama Michael Chang, ha diciassette anni ed é nato negli USA da genitori cinesi. E’ uno scricciolo dal cervello finissimo, che approda agli ottavi di finale eliminando en passant un giovane Pete Sampras con triplice 6-1.
Ma é la sfida degli Ottavi di finale contro il numero uno del momento, il glaciale Ivan Lendl, a renderlo immortale.
Chang perde come prevedibile i primi due set, quando nel terzo cade vittima di dolorosissimi crampi: comincia lo show.
Il piccoletto ingurgita quantità industriali di banane e di acqua ad ogni cambio di campo, rallenta il gioco con pallonetti da tennista della domenica e, impossibilitato a respingere il potente servizio del fuoriclasse cecoslovacco, si piazza a ricevere nelle zone più assurde del campo, sperando di indurlo in errore.

Michael Chang vince il Roland Garros

E così é: un Lendl insolitamente stizzito riesce a perdere il terzo e il quarto set.
E’ un Davide contro Golia. Chang, ormai infermo, arriva anche a servire colpendo la pallina dal basso, come i bambini alle prime armi.
Lendl, non proprio un simpaticone, é ormai in preda ad una crisi isterica, il paludato Roland Garros si trasforma in una curva sud che sostiene “Michelino” a squarciagola, e così dopo un’epica battaglia di 4 ore e 38 minuti, Michael Chang  stramazza al suolo incredulo ma vincitore.
L’astuto cinesino prosegue la sua marcia trionfale eliminando l’haitiano Agenor, il sovietico Chesnokov, e in finale il grande Stefan Edberg, al termine di cinque set tiratissimi.
Chang non vincerà mai più una prova del Grande Slam: diventerà tuttavia un fior di tennista, raggiungendo anche la seconda posizione nella classifica ATP.
Si rende allora necessario evidenziare l’esistenza di un congruo sottoinsieme: quello dei “finti” eroi per caso.
Capita spesso, infatti, che ci si presenti sul proscenio mondiale senza biglietto d’invito, come meteore piovute dal cielo, ma poi si legittimi a scoppio ritardato quei successi apparentemente casuali.
Sempre in ambito tennistico, Boris Becker per esempio aveva solo quattro mesi più di Chang quando vinse da emerito sconosciuto Wimbledon nel 1985: ma poi divenne il campione che tutti ricordiamo.
E che dire, per tornare alla bicicletta, di Oscar Freire, uno dei ciclisti più vincenti dell’ultimo decennio?
Quando prende il via ai Mondiali di Verona 1999, Freire é un velocista di ventitre anni tormentato dagli infortuni, con una ventina di trascurabili corse del calendario spagnolo alle spalle. Non é dato sapere se l’allora Commissario Tecnico Antequera vantasse qualità divinatorie: perché anche al più esperto degli addetti ai lavori sfugge cosa ci stia a fare nell’agguerrita Selezione iberica quel ragazzotto della Cantabria.
Fatto sta che “Oscarito” si infila nella fuga giusta, e quando parte all’ultimo chilometro (in spregio alle sue qualità di sprinter), nessuno lo riprende più.
Il solito Carneade su due ruote, si pensa lì per lì. Come Carlo Clerici o Roger Walkowiak, anonimi gregari entrati rispettivamente nell’albo d’oro dei vincitori di Giro e Tour grazie ad avventurose fughe bidone (e a conseguenti sonore dormite dei favoriti).
E invece no: Freire rivincerà il Mondiale due anni dopo e farà il tris nel 2004, sul medesimo percorso che lo rivelò al mondo, condendo il tutto con vittorie in serie al Tour e alla Milano-San Remo.
Lo sciatore austriaco Stefan Eberharter vince fra lo stupore generale due ori (super-gigante e combinata) ai Mondiali casalinghi di Saalbach 1991: aveva solo ventun anni.
Diventa l’idolo di una nazione intera, che di lì a poco dovrà piangere l’altro protagonista di quella manifestazione, Rudi Nierlich, morto in un incidente stradale.
Ma Eberharter non ripete neanche lontanamente quelle prestazioni: sparisce di botto, precipitando nel più completo anonimato. Dopo un po’ sorge spontanea una domanda: fu vera gloria?
Altroché: basta solo aver pazienza. Il buon Stefan riemerge infatti a seconda vita sportiva quasi otto anni dopo, giusto in tempo per vincere 2 Coppe del Mondo e 6 medaglie fra Olimpiadi e Mondiali.
Ma il Dio dello sci alpino dev’essere un tipo alquanto bizzoso, che ama elargire in modo beffardo gloria e trofei.
Franck Woerndl, Hans-Joerg Tauscher, Urs Lehmann, i nostri Patrick Staudacher e Daniela Ceccarelli. Cosa hanno in comune?
Tutti hanno avuto l’onore di portare una medaglia d’oro al collo (mondiale i primi quattro, olimpica l’unica fanciulla del lotto). Nessuno di loro, tuttavia, ha mai vinto una gara di Coppa del Mondo, in fondo il termometro più attendibile della consistenza agonistica di uno sciatore.
Ma Josef Polig e Gianfranco Martin alle Olimpiadi di Albertville del 1992 sono andati oltre, dando vita a una coppia di eroi per caso.
Polig é un onesto mestierante dello sci, un atleta polivalente (polig-valente, suggerirà qualche buontempone) che si destreggia discretamente in combinata, dove vanta come migliori piazzamenti un quinto e due sesti posti.
Quanto a Martin, si sa poco o nulla. Risulta esser nato a Genova: il che, trattandosi di uno sciatore, non é propriamente rassicurante. E’ un discesista agli esordi, anche lui mandato allo sbaraglio in combinata: disciplina indigesta ai nostri portacolori più titolati, Tomba in primis.
I nostri eroi così prendono il via nella gara che somma le prove di  slalom speciale e discesa libera, col tipico spirito di un impiegato in gita premio: nonostante il forfait del grande norvegese Aamodt, la medaglia sembra infatti un affare fra il leader di Coppa, Pauli Accola, il vecchio Marc Girardelli e gli austriaci Strolz e Mader.
Ma sulla “Face du Bellevarde”, pista di discesa suggestiva e ostica come poche, si palesa una metamorfosi insospettabile: Polig tiene botta e chiude sesto, mentre Martin finisce addirittura secondo fra lo sbigottimento dei presenti. Non solo: Girardelli e Mader cadono ed escono dai giochi.
Mancano però le due manches di slalom, e lì c’é poco da inventare. Nella prima prova succede però che anche Accola (vincitore delle tre combinate stagionali) sbagli grossolanamente e si tiri fuori dal discorso vittoria.
Nel clan azzurro si comincia a respirare aria di medaglia, ma quanto all’oro non ci sono speranze. Hubert Strolz, in testa dopo la discesa e la prima manche di slalom, é uno slalomista provetto (oltre ad essere il campione uscente della specialità), mentre i nostri due atleti sono piuttosto a disagio fra i pali stretti.


Josef Polig e la sua medaglia d'oro



Ma Strolz é anche uno che ha un pessimo rapporto con la vittoria: in carriera ha vinto solo due volte, a fronte di 15 secondi posti e 19 terzi! E infatti, a pochi metri dal traguardo, s’ingarbuglia su sé stesso e vola gambe all’aria.
Josef Polig, con una seconda manche alla Alberto Tomba, vince la medaglia d’oro, davanti al compagno di squadra Gianfranco Martin, che difende miracolosamente il secondo posto acquisito dopo la discesa. Inutile (e vieppiù crudele) sottolineare che di entrambi si perderanno le trecce negli anni a venire.
(fine prima parte)