giovedì 24 febbraio 2011

Eroi mancati: quando l’importante non è vincere (e forse neanche partecipare)


In principio fu Dorando Pietri. Chi non lo ricorda?
Dominare la maratona olimpica, stramazzare al suolo a cento metri dal traguardo, risollevarsi con l’aiuto di un paio di inservienti, ripiombare a terra stremato e perdere tutto.
Già: ma chi vinse la medaglia d’oro al suo posto? Pochissimi saprebbero rispondere (tale John Hayes, giusto per la cronaca).
Ecco, qualcuno che vedeva lontano (era il 1908, e lo sport-business era ancora di là da venire) capì quel giorno che vincere non è l’unico sistema, e forse neanche il più efficace, per diventare icone delle sport moderno.
Non sono infatti le vittorie in serie, quelle raccolte col pallottoliere per intenderci, a fare la storia.
Perché lo scudetto del Cagliari di Gigi Riva vale dieci e forse più di una Juventus trapattoniana; i 6 G.P. vinti da Gilles Villeneuve (niente di che, teoricamente, in 6 anni di Formula 1) pesano più dei 50 vinti da un Alain Prost; così come uno scatto di Pantani o certi slalom di Tomba resteranno indelebilmente scolpiti nella memoria più dei 5 Tour consecutivi o delle 4 Coppe del Mondo dei coevi Indurain e Zurbriggen.
Ma se per entrare nell’immortalità é determinante il “come” si vince, altrettanto funzionale allo scopo può essere il “come” si perde.
Ci sono perdenti indimenticabili per essersi giocati tutto in un istante, e aver fatto a brandelli l’insegnamento “carpe diem” di latina memoria.
Ci sono sconfitti “seriali”, veri Don Chisciotte all’ostinato inseguimento di chimerici traguardi sgusciati via come anguille per tutta la carriera.
E ci sono quelli che vinti, nel senso letterale del termine, non sono: perché alla contesa, per scelta o per destino, non hanno mai preso parte.
La nostra rassegna non può che partire dal ciclismo, che come nessun altro ha esplicitato il concetto di “perdente di successo”: perché solo uno sport che conosce la fatica vera, prolungata, sempre uguale, può portare  un rispetto così alto per lo sconfitto.
In questo senso la “maglia nera”, vessillo con cui é stato per anni contraddistinto l’ultimo classificato al Giro d’Italia, resta un’intuizione irripetibile,  monumento geniale quanto surreale ai militi ignoti di ogni sport.
Nessun altra manifestazione del globo terracqueo può vantare nella sua storia un premio del genere. Sì, il Sei Nazioni di rugby (già Cinque nazioni e ancor prima quattro), assegna da sempre a chi ha perso tutte le partite del torneo il celeberrimo “cucchiaio di legno”. Ma é riconoscimento per nulla ambito, figlio della goliardia di un ambiente che per decenni ha difeso strenuamente il dilettantismo come suo valore fondante.
Per indossare invece la “maglia nera”, assegnata dal 1946 al 1951 con tanto di classifica e regolamento apposito, ci si scannava, altroché.

La maglia nera tra la folla


Quelle 6 edizioni del Giro mettono in scena una grottesca corsa nella corsa, che giorno dopo giorno appassiona il pubblico e fa la fortuna dei protagonisti, altrimenti condannati da madre natura all’anonimato.
E’ così che il buon Luigi Malabrocca (che peraltro tanto brocco non era) entra nell’Olimpo delle figure indimenticabili del ciclismo del Dopoguerra.
Il nostro eroe vince le prime due edizioni accumulando complessivamente più di dieci ore di ritardo. Ma la notorietà e i guadagni che gli piovono addosso fanno aguzzare l’ingegno ai colleghi.
Così nel 1948 Malabrocca, nonostante le quasi otto ore di distacco da Fiorenzo Magni, é costretto ad accontentarsi del … penultimo posto, mentre nel 1949 dà vita ad un avvincente testa a testa senza esclusione di colpi (leggi finte forature, imboscamenti, malori inventati) col futuro vincitore Carollo che coinvolge gli appassionati quanto quello fra Coppi e Bartali.
Ma come dicevamo, si può entrare nel girone dei vinti pur essendo dei fuoriclasse acclarati, magari solo per aver perso qualche treno di troppo.
La Francia ciclistica, per esempio, ha avuto innumerevoli campioni, da Pelissier a Bobet, da Anquetil a Hinault. Ma nessuno é stato amato come Raymond Poulidor.
Un paradosso statistico su due ruote.
Corridore completo: potente, tenace e, cosa che rende ancor più incredibile la sua parabola, straordinariamente longevo (ben diciotto anni di professionismo).
Fra il suo primo podio al Tour de France (terzo nel 1962) e l’ultimo (terzo nel 1976), passano quattordici anni e dodici partecipazioni alla corsa più importante del panorama ciclistico, che fruttano altri tre terzi posti e altrettanti secondi.
Vittorie: zero. Si può arrivare otto volte sul podio e mai sul gradino più alto?
Sì, obietterà qualcuno, quando ti imbatti in gente come Merckx, Anquetil, Gimondi (un po’ meno quando si pensa a carneadi come Pingeon o Aimar).
Ma il dato che fa della carriera di “PouPou” un’anomalia senza precedenti é a ben vedere un altro.
In più di duecento tappe infatti Poulidor non riesce mai ad indossare neanche per un giorno la maglia gialla! Un privilegio, quello di trovarsi in testa alla classifica provvisoria del Giro di Francia, toccato dal 1903 ad oggi a qualcosa come 269 corridori: fuoriclasse e comprimari, capitani e gregari, velocisti e scalatori, ma mai al ciclista più amato dai Francesi.
Se i Mondiali stanno al calcio come il Tour de France sta al ciclismo, allora il Poulidor del pallone risponde al nome di Alfredo Di Stefano.
Il più grande giocatore del Mondo prima di Pelé (per alcuni anche dopo), porterà a termine una carriera onusta di gloria con un grande rimpianto, che già traspare da un’occhiata fugace al suo straripante palmares.
In sintesi: 5 Coppe dei Campioni consecutive, 13 scudetti, una Coppa Intercontinentale. Questo con le squadre di club. A livello di rappresentative nazionali, una misera Coppa America, conquistata a solo vent’anni. Poi il nulla: come possibile?
Diciamo pure che lui ci ha messo del suo. Non a caso abbiamo omesso la sua nazionalità: già, ma quale nazionalità?
Di Stefano nasce argentino, esplode nel River Plate di Buenos Aires, poi nel 1949 parte per la Colombia mosso dalla sua grande passione (il denaro) e trova giust'appunto ingaggio nei Milionarios (nomen omen).
Di Stefano diventa seduta stante cittadino colombiano, e veste per quattro volte la maglia della modesta Nazionale locale. Poco male, perché nel frattempo la federazione argentina ha rinunciato, per beghe burocratiche, a prende parte ai Mondiali del 1950, diniego che si ripeterà anche nel 1954.
Nel 1958 l’Argentina finalmente approda alla fase finale del Campionato del Mondo in Svezia, ma Di Stefano ha altro a cui pensare.
E’ diventato il leader indiscusso del Real Madrid, il club più forte d’Europa. Ma a livello di nazionale, Di Stefano persiste nel puntare sul cavallo sbagliato: nel 1956 diventa spagnolo (e sono tre…), ma le “Furie Rosse”, nonostante il suo apporto, mancano clamorosamente la qualificazione al Mondiale.
Finalmente, nel 1962, la Spagna e Di Stefano, ormai trentaseienne, sbarcano in Cile per i Mondiali che consacreranno il Brasile. Ma la maledizione continua: il vecchio Alfredo incappa in un infortunio che lo terrà ai box per tutta la manifestazione, e terminerà la carriera senza aver giocato neanche un minuto alla fase finale di un Mondiale.
Ci sono iatture, come quelle appena citate, che durano una carriera intera. E treni persi per un batter di ciglia, destinati a non ripassare più.
Mondiali 1972:  gli ultimi mille metri di Franco Bitossi detto “Cuore Matto” per via di una lieve ipertrofia cardiaca, diventano una scena cult nella storia del ciclismo.
Siamo a Gap (il nome non potrebbe essere più appropriato), e “Cuore Matto” é solo in testa: a distanza di sicurezza, quasi invisibili fra il capannello auto e moto dell’organizzazione, i connazionali Basso e Dancelli, saggiamente a ruota di sua Maestà Eddy Merckx, dell’olandese Zoetemelk,  del francese Guimard e del danese Mortensen.
C’é  vento contrario, il rettilineo é in leggera salita, ogni metro ne vale dieci. Dietro Merckx traina il gruppetto, che erode il distacco a occhio nudo: ma sembra solo un supplemento di suspence a beneficio del pubblico.
Poi Bitossi comincia ad arrancare, a spingere di spalle, come un motore che batte in testa. Sbanda, si guarda ossessivamente all’indietro: ma che ti giri a fare “Cuore Matto”? Mancheranno trenta metri…
Sono istanti strazianti: Marino Basso capisce l’antifona, parte come una schioppettata sulla destra del compagno stremato, poi s’infila sulla sinistra e taglia il traguardo a braccia alzate.



Bitossi passa la linea d’arrivo impietrito, solo in virtù di quel principio della fisica noto come forza d’inerzia. Secondo, ma solo perché il francese Guimard non riesce a scansare quella sorta di cetaceo spiaggiato in mezzo alla strada.
Certo in questi frangenti aiuta, e non poco, l’affetto del pubblico, la consapevolezza che la tua popolarità  non ti abbandoni e, anzi, ne esca paradossalmente accresciuta.
Perché c’é anche chi è passato dal trionfo all’anonimato più completo in un lampo.
Pasquale Fornara, piemontese, é uomo da corse a tappe fra i migliori degli anni ‘50. Il classico regolarista, un po’ anonimo, di quelli che non scaldano i cuori, anche perché dà il meglio di sé lontano dalle strade italiane (4 Giri di Svizzera e un Giro di Romandia gli varranno il soprannome “lo svizzero”).
Il Giro d’Italia del 1956 sembra però quello della consacrazione: vince la cronometro di 54 chilometri da Livorno a Lucca ( è la tredicesima tappa) e conquista la maglia, che conserva autorevolmente per una settimana.
Mancano tre tappe, é quasi fatta: ma il destino ha in serbo per lui altri progetti. L’apocalittica Merano-Monte Bondone, pietra miliare della storia delle due ruote.
La tempesta perfetta: nove ore di nevischio battente, di vento gelido a raffiche che scuote come banderuole i corridori sui 5 Gran Premi della Montagna disseminati lungo il percorso e posti ai piedi di altrettante vette dolomitiche travestite da mastodontiche stalagmiti.
In fuga c’é Charly Gaul, che é fuori classifica e non fa paura più di tanto. Ma mentre lo scalatore lussemburghese in maniche corte spiana con nonchalance una salita dopo l’altra, alle sue spalle i ritiri si contano a grappoli, così come i minuti di distacco che assumono via via contorni colossali.
Ogni aiuto é lecito. I più previdenti fanno tappa nelle farmacie dei paesini a fondovalle, gli altri si arrangiano cercando tepore in qualche baita lungo il percorso o rimediando bicchieri di grappa o thé caldo da qualche oste impietosito.
Fornara va in crisi nera, come tanti altri del resto, ma il suo Direttore Sportivo Giumanini, un brav’uomo ma forse non un cuor di leone, invece di incoraggiare “lo svizzero” a tener duro, lo convinca a ritirarsi, dichiarando all’arrivo: “gli voglio bene come un figlio, mi piangeva il cuore a vederlo soffrire così!”.
Morale: Charly Gaul vince il Giro ed entra nell’Olimpo del ciclismo come il più grande scalatore di tutti i tempi (almeno fino all’avvento di Pantani), mentre Fornara tornerà a far man bassa di Giri di Svizzera, dove evidentemente fa meno freddo che sulle nostre Dolomiti…
E che dire, per passare alle ruote motorizzate, del povero Felipe Massa, pacioso pilota brasiliano della Ferrari?
L’unico di questa carrellata di sportivi, lo anticipiamo, ad aver provato l’ebbrezza di sentirsi Campione del Mondo: e l’unico ad aver provato l’ebbrezza di perdere un Campionato del Mondo in un giro di lancetta.
E’ il 2008. Gran Premio del Brasile, ultima gara dell’anno. Massa, beniamino di casa, é secondo in classifica generale dietro Lewis Hamilton della McLaren. Servirebbe un miracolo, o quasi: stante la vittoria di Massa, Hamilton dovrebbe arrivare sesto o peggio.
Ed eccolo, il miracolo, sotto forma di un acquazzone che investe il circuito a una manciata giri dalla fine. Massa veleggia in testa, quando Hamilton, che fino allora ha ciondolato senza rischiare nulla fra il quarto e il quinto posto, viene clamorosamente sorpassato sotto il diluvio dall’enfant prodige  Vettel.
Hamilton si ritrova sesto, esattamente dove segretamente si sognava finisse, e sulle tribune esplode la festa.
Massa taglia il traguardo nel tripudio della “torcida” sugli spalti. Poi arrivano Alonso, Raikkonen e “Rain man” Vettel. Tocca al quinto classificato, Timo Glock su Toyota, ma quello che spunta dall’ultima curva non é affatto Glock: é Lewis Hamilton!
Nella sarabanda generale, pochi si sono infatti accorti che il pilota della Toyota era stato superato a un paio di curve dalla fine da Hamilton, complice proprio quel maledetto nubifragio improvviso (fino a poco prima provvidenziale)  che sorprende il povero Glock con le gomme da asciutto.
Restando in Brasile, peggio che piombare nell’anonimato é assurgere a icone di una sciagura nazionale.
Zizinho, Ademir, Flavio Costa. Chi sono costoro?
I primi due sono due assoluti fuoriclasse del calcio brasiliano anni ’40: regista il primo, centravanti sui generis il secondo. Il terzo è l’allenatore della Selecao che nel 1949 ha vinto la Coppa America segnando qualcosa come 46 goal in 8 partite.
Ma il Brasile calcistico di quegli anni ha in mente un solo obiettivo: il Mondiale casalingo del 1950, l’occasione perfetta per far entrare i tre sopraccitati nella storia con la “S” maiuscola.
Dopo una buona prima fase di torneo, infatti, la squadra di Flavio Costa ingrana la quinta nel girone finale: 7 a 1 alla Svezia campionessa olimpica in carica (con 4 goal di Ademir) e 6 a 1 alla Spagna (una rete di Zizinho).
E’ una cavalcata trionfale, cui manca solo l’apoteosi finale: la partita contro i vicini di casa uruguaiani, in uno stadio Maracanà invaso da duecentomila e più brasiliani in delirio.
Ciò che accade quel 16 luglio 1950 é talmente noto alle cronache calciofile che non val la pena dilungarsi particolarmente. Il Brasile va in vantaggio, poi subisce il pareggio; può bastare (era l’ultimo match e l’Uruguay era dietro di un punto), ma accecato dalla sua superbia si getta scriteriatamente in avanti e viene punito dagli infidi cugini.
La madre di tutte le sconfitte, uno degli esempi più fulgidi di masochismo e di insipienza mai offerti dallo sport di ogni tempo: ancora oggi il termine “Maracanazo”  é, da quelli parti, sinonimo di disastro epocale, né più né meno che il nostro “Caporetto”.
I suicidi, alcuni tentati (fra di essi il difensore Danilo Alvim), altri andati a buon fine (si fa per dire…), non si contano in tutto il paese, il radiocronista dell’evento si ritira a vita privata e la Selecao, onde evitare infausti influssi di quel giorno sciagurato, abbandona da allora la divisa bianca d’ordinanza per adottare la celebre maglia giallo canarino tutt’ora in uso.
Quanto ai nostri tre amici, peggio andrà al tecnico Flavio Costa. Minacciato di morte al pari del maldestro portiere Barbosa, fugge in Portogallo in attesa che si calmino le acque, ma avrà la soddisfazione di tornare sulla panchina della Selecao nel 1956.
C’é tutto un filone, per la verità, che riguarda le grandi Nazionali di calcio scivolate su una buccia di banana a un passo dalla gloria mondiale.
Quattro anni dopo il disastro del Maracanà, é l’immensa Ungheria di Puskas a capitolare inopinatamente di fronte a una modesta Germania Ovest. Col proprio leader acciaccato e in vantaggio di due goal dopo dieci minuti, i magiari si fanno rimontare da un avversario quasi sicuramente rinvigorito da sostanze illecite, ma pur sempre battuto pochi giorni prima, nel girone eliminatorio, per otto a tre.
C’é anche chi si é concesso il bis. E’ l’Olanda del “Calcio Totale”, indimenticabile complesso capace come nessun altro di provocare uno strappo secco e risolutivo con i suoi tempi, proiettando il football nella modernità.
Nel 1974 é la Germania Ovest padrone di casa (fortissima, stavolta) a rimontare Cruyff e soci, in vantaggio già al primo minuto. Quattro anni dopo ci pensa una traversa maledetta centrata da Rensenbrink a consegnare all’Argentina (anche lei Paese ospitante) il titolo iridato.
A proposito dei Mondiali argentini del 1978, é un calciatore di casa a rilanciare l’inquietante quesito del Nanni Moretti di  “Ecce Bombo”, se cioé l’assenza sia la condizione migliore per non passare inosservati.
Forse no: non in un Paese governato da una dittatura militare almeno. Jorge Carrascosa é il capitano di quella Nazionale Argentina che si appresta ad ospitare i Campionati del Mondo con un unico obiettivo: vincere, ad ogni costo.

Jorge Carrascosa

Sono gli anni dei desaparecidos, dei dissidenti buttati nell’Oceano Atlantico o gettati da aerei militari nei famigerati “voli della morte”,delle madri delle vittime che ogni giovedì si radunano a Plaza de Mayo invocando notizie sui propri figli.
La finale, cui l’Argentina approderà in virtù di una partita farsa contro il Perù, si disputa all’ Estadio Monumental, a un tiro di schioppo dall’ESMA, la scuola ufficiali della Marina Militare, riconvertita a luogo di tortura e prigionia.
C’é chi dice no, direbbe Vasco Rossi. Jorge Carrascosa lascia la Nazionale il calcio pochi mesi prima dell’inizio del Mondiale, a 29 anni, e l’anno successivo il calcio giocato: non una parola, né allora né in seguito.
Ad alzare la Coppa del Mondo, accanto a Videla e agli altri Generali, c’è così il suo sostituto, Daniel Passerella detto “El Caudillo” (traducibile con “il generale”, “il tiranno”).
Nella sbornia successiva al trionfo, molti si dimenticano alla svelta di Carrascosa, così come tanti perdono di vista, nei terribili anni ’40, il barone Gottfried Von Cramm.
Sontuoso fuoriclasse del tennis tedesco anni ‘30, di orientamenti sessuali poco consoni all’iconografia del perfetto guerriero ariano, vince tre volte il Roland Garros (due volte in singolare e una in doppio), e una volta, sempre in doppio, gli United States Open.
Ma é una sconfitta a renderlo celebre.
Coppa Davis 1937: gli Stati Uniti d’America contro la Germania Nazionalsocialista, Gottfried Von Cramm contro il grande Donald Budge.

Von Cramm vs Budge

E’ proprio il fuoriclasse americano a riferire di una presunta telefonata nell’imminenza del match, fra Von Cramm e Adolf Hitler, che raccomanda caldamente (eufemismo, conoscendo il soggetto) al compatriota di non deluderlo.
Quel che é certo é che l’austero barone tedesco, nonostante il sostegno del suo coach Bill Tilden (ironia della sorte, americano e pure lui gay), vive quella partita con un subbuglio interiore mai provato.
In vantaggio di 2 set a zero, concede il terzo e il quarto a Budge. Va in vantaggio 4 a 1 nel quinto, ma si fa rimontare ancora fino a soccombere per 8 a 6. Di proposito? Difficile da dimostrare: fatto sta che la Germania dovrà attendere il 1988 aggiudicarsi la celebre “insalatiera d’argento”.
Quanto a Von Cramm, l’inopinata sconfitta lo fa entrare a pieno titolo fra il novero dei “sorvegliati speciali”. Lui persiste nel manifestare il suo scarso trasporto per l’ideologia nazista e  finisce in galera per omosessualità. Dopo la guerra tornerà al tennis, con l’orgoglio di non essersi mai piegato al Regime.
Jorge Carrascosa e Gottfried Von Cramm: anche loro hanno perso l’appuntamento con la storia? Beh, lasciatecelo dire, dipende dai punti di vista…

Per un pugno di gloria: piccole e grandi truffe nello sport

“Mens sana in corpore sano” dicevano i Latini. “L’importante non é vincere ma partecipare” replicava il barone De Coubertin, nume tutelare dell’olimpismo moderno.
L’esercizio di un’attività fisica in chiave agonistica, reca da sempre con sé la presunzione di una lealtà e di un rispetto reciproco fra i contendenti, di una virtuosità che trascende il corpo per riverberarsi  in un animo limpido e nobile.
Eppure, lo sappiamo bene, le frodi  per rimodellare le gerarchie decretate dal campo sono all’ordine del giorno, nello sport professionistico ma non solo.
Ci sono, a ben vedere, due macrocategorie.
Il miglioramento delle proprie prestazioni, con l’utilizzo di sostanze vietate o di altri accorgimenti (vedi gli sport motoristici) non consentiti dal regolamento vigente. Dal doping fai da te di inizio Novecento a quello super-tecnologico della Germania Est, dai muscoli ipertrofici di Ben Johnson al Tour de France del 1998, la letteratura é ampia e variegata.
E l’alterazione complessiva della contesa, tramite la corruzione, o quantomeno l’accomodamento, di avversari o giudici di gara. Qui, senza scomodarsi tanto, basta rimanere nei patrii confini calcistici per trovare una casistica più che nutrita: il Calcioscommesse anni ’80, il “sistema Moggi”, e una torbida storia con ingerenze delle alte sfere che porta alla revoca dello scudetto del Torino nel lontano  1927.
Qui però ci piace soffermarci su un particolare tipo di truffe: quella più maldestre, plateali e grottesche.
Pataccate, pacchiani e puerili raggiri da ladri di galline. Da parte di chi nel barare denota lo stesso, scarso talento, che li ha indotti a violare le regole per imporsi sui più meritevoli: di chi ha sancito il principio, per parafrasare indegnamente Anna Arendt, della banalità dell’imbrogliare.
Innanzitutto sgombriamo il campo da un luogo comune: non é stata la deriva affaristica dello sport di oggi, l’ingerenza di sponsor miliardari né il graduale imbarbarimento della società di fine millennio, a far crescere il numero di episodi del genere. Ci sono sempre stati: anzi, hanno proliferato in particolare nello sport pionieristico, laddove controlli e regolamenti erano più approssimativi.
Un esempio?
Il Giro d’Italia del 1914: per il vincitore, Alfonso Calzolari, qualcosa di simile al “Giro del mondo in 80 giorni” di Jules Verne.
Calzolari balza in testa alla classifica nella seconda tappa, che domina con 23 minuti di vantaggio su Giuseppe Azzini e 34 su un giovanissimo Girardengo. Parrebbe mettersi bene per il buon “Fonso”, ma é l’inizio di un incubo.
Indicazioni stradali manomesse per fargli sbagliare percorso, chiodi buttati sotto le ruote per farlo bucare, cadute provocate ad arte dagli avversari, la più grave della quali lo fa quasi annegare in un fosso.
Non c’è limite alla creatività perversa dei suoi rivali e dei di loro tifosi: ma  Calzolari, imperterrito, tira dritto. Fino al clou, nella tappa di L’Aquila, quando una misteriosa auto rossa, a bordo della quale viaggiavano loschi figuri con barbe posticce, cerca di corromperlo proponendogli di trainarlo per qualche chilometro, e una volta incassato il rifiuto del campione, lo investe bellamente.
Neanche questa trovata va a buon fine ma, per assurdo, la vittoria dell’incorruttibile Calzolari rimarrà sub judice proprio per via di quel presunto traino, e verrà decretata solo alcuni mesi dopo.
Passano cinquant’anni, ed é sempre lo sport delle due ruote a ricordarci che la truffa é innanzitutto improvvisazione, capacità di passare inosservati e colpire al momento propizio.
Corre l’anno 1963 e per il Belgio l’undici di agosto é un giorno speciale. La cittadina di Renaix (o Ronse, alla fiamminga) ospita i Campionati del Mondo su strada, che hanno nel superbo velocista di casa Rik Van Looy il logico favorito.
E infatti all’imbocco del rettilineo finale l’esito pare scontato. Sono rimasti una ventina di corridori: Van Looy, “l’imperatore di Herentals” é il più veloce allo sprint, e può contare su un manipolo di gregari pronti a tiragli la volata.
Tutti tranne uno, Benoni Beheyt. Un ragazzino promettente ma decisamente acerbo, notato e quasi imposto dallo stesso Van Looy, in una Nazionale belga costruita in apparenza su misura per le esigenze del grande campione.
In apparenza, perché quando il suo vice, Gilbert Desmet, scatta a una manciata di chilometri dal traguardo, Van Looy comincia a subodorare che c’é qualcuno che rema contro fra i suoi.
Già, ma Beheyt: chi poteva immaginarselo. Lamenta crampi da metà gara, tanto da chiamarsi fuori dal più sporco lavoro di gregariato e far sapere per tempo al capitano di non aver più nulla da spendere nei chilometri finali.
Volata: Van Looy parte lungo, forse troppo, quando da dietro rinviene a tutta velocità una sagoma bislunga.
Tu quoque Beheyt! Il ragazzino rimonta fino ad affiancare Van Looy e giusto sul traguardo gli dà una manata sulla schiena  per scansarlo (o chissà, per sospingerlo in un tardivo gesto di pentimento).
Quel che é certo, é che per questo Giuda delle Fiandre sarà l’inizio della fine. Il Belgio sta al ciclismo come l’Italia sta al calcio, e l’opinione pubblica non lo accoglie certo come un eroe. Van Looy gli fa terra bruciata e l’ambiente (quello del pedale é un mondo alquanto tetragono e conservatore) lo respinge: sarà costretto a chiudere la carriera tre anni dopo, a ventisei anni, con quell’unica ma indimenticabile vittoria di Pirro nel carniere.
Certo, talvolta questi episodi di per sé ameni o quantomeno bizzarri nascondono risvolti spiacevoli e vicende umane complesse.
C’è una stella nel firmamento dell’atletica femminile degli anni ’30. Di nome e di fatto: si chiama Stella Walsh, pseudonimo angolofono di Stanislawa Walasiewicz, Polacca trapiantata con la famiglia negli Stati Uniti, è un’atleta straordinariamente poliedrica, capace di disimpegnarsi nella velocità come nei lanci di disco e giavellotto.


Stella Walsh



Come portabandiera della sua patria d’origine, vince un oro nei cento metri alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 e un argento quattro anni dopo nella stessa specialità a Berlino, oltre a due ori e due argenti agli Europei del 1938.
Finito di gareggiare, Stanislawa, o Stella, vive un’esistenza serena negli USA, si sposa con un pugile e muore nel 1980, durante una rapina a Cleveland.
Possiamo ben immaginare lo stupore del medico legale, quando durante l’autopsia scopre che l’ex campionessa ha …. genitali maschili!
Rarissimo caso di ermafroditismo, la Walasiewicz ha mantenuto comunque le medaglie conquistate. La scoperta postuma le ha risparmiato invece le orrende speculazioni di cui é stata vittima dopo i Mondiali di atletica del 2009 la sudafricana Caster Semenya: derisa dalle avversarie e buttata allo sbaraglio dall’avida Federazione del suo Paese, che tace degli ambigui esami sulla sessualità della ragazza e anzi tenta di salvare la faccia aizzando l’opinione pubblica locale contro gli organismi internazionali.
Sì, perché questi atleti cui viene gettata una medaglia al collo per dare lustro a federazioni e politicanti di ogni ordine e grado, sono spesso vittime ancor più che carnefici.
Chiedete ad Giovanni Evangelisti, ottimo saltatore in lungo con un bronzo alle Olimpiadi del 1984 come fiore all’occhiello.
Evangelisti é fra le punte di diamante della spedizione azzurra per i Mondiali di atletica casalinghi di Roma 1987.
Dopo cinque salti su sei, però, il nostro campione é solo quarto con la misura di otto metri e diciannove centimetri, dietro l’irraggiungibile Carl Lewis (8,67), il russo Emmian (8,53) e l’altro statunitense Myricks (8,33).
Evangelisti va per l’ultimo tentativo, che tuttavia non sembra un granché anche a occhio nudo. Atterra sulla sabbia, si rialza e se ne va sconsolato.
Percorre con la coda fra le gambe qualche metro, poi sente il boato del pubblico dell’Olimpico: 8,38, medaglia di bronzo!
Lì per lì rimane basito, poi sale sul palco delle premiazioni, ma sempre con stampato in faccia che qualcosa non quadra.
Non c’é bisogno di tecnologie in dotazione alla NASA per calcolare che il salto é più corto di un buon mezzo metro rispetto a quanto dichiarato. La polemica divampa: lì per lì ci si arrampica sugli specchi, si invoca l’errore umano o un maledetto guasto alle apparecchiature.
Ci volle un po’ per comprendere l’arcano, e si capisce anche il perché. Un giudice italiano, più realista del re, aveva preventivamente piantato nella sabbia un picchetto prisma (che, raccordato con l’asse di battuta, permette la misurazione) a una congrua distanza, tale appunto da proiettare il nostro atleta in zona medaglia.
Facciamo un salto di solo due anni per entrare nel mondo del calcio.
E’ il 1989 e al Maracanà di Rio de Janeiro si disputa una delicatissima partita fra Brasile e Cile, per la qualificazione al Mondiali di calcio di Italia ’90.
I padroni di casa hanno un goal di vantaggio e il lasciapassare per la massima rassegna mondiale in mano, quando scoppia il caos.
Il portiere cileno Roberto Rojas stramazza al suolo, avvolto nel fumo di un bengala scagliato dalle tribune. E’ in un lago di sangue e si contorce dal dolore: così i suoi compagni lo accompagnano a braccia fuori dal terreno di gioco, rifiutandosi categoricamente di riprendere il match, mentre uno di loro, Patricio Yanez, si rivolge verso il settore da cui é partito il fumogeno con rimostranze non propriamente da educanda.


Il Brasile é sull’orlo della catastrofe nazionale: la sconfitta a tavolino significa l’esclusione dal Mondiale, un’onta mai subita dalla Nazionale più titolata del pianeta.
Ma lo sconforto dura pochi giorni. Da riprese televisive e testimonianze dirette pare infatti evidente che il razzo é caduto ad almeno un metro da  Rojas.
E allora, tutto quel sangue? Beh, basta nascondere una lametta in un guanto, attendere il momento propizio e incidersi una zona particolarmente vascolarizzata, tipo il sopracciglio…
Ironia della sorte, Roberto Rojas militava all’epoca in Brasile al San Paolo. Radiato dalla FIFA e riabilitato dopo una decina d’anni, é tornato nel Paese che volentieri l’avrebbe linciato, dove si é costruito un’onesta (in tutti i sensi) carriera da preparatore dei portieri.
Gennaio 1994. Va in onda un sceneggiato rosa a tinte noir, con una cattiva cattivissima e una buona che più buona non si può, che terrà gli Stati Uniti col fiato sospeso neanche fosse l’ultima puntata di Beautiful.
Tutto ha inizio un paio di mesi prima, quando Tonya Harding, una Balotelli del pattinaggio su ghiaccio americano, con un’adolescenza disgraziata alle spalle e una tumultuosa love-story con un teppistello da strapazzo, riceve delle minacce di morte.
La Harding, talento immenso ma in precoce declino, entra finalmente nel cuore degli appassionati, al punto da insidiare la rivale di sempre, Nancy Kerrigan, eterea e aggraziata quanto lei era stagna e muscolare. Le Olimpiadi di Lillehammer sono alle porte, c’é posto per sole due atlete a stelle e strisce e non va sottovalutata l’impetuosa ascesa della tredicenne Michelle Kwan.
Siamo alla vigilia della gara di selezione, quando un tizio incappucciato irrompe nel bel mezzo di un’intervista e fracassa il ginocchio della bella Nancy.
Vince la Harding davanti alla Kwan. La Kerrigan guarda le rivali da una stanza d’ospedale, ma l’infortunio si rivela meno grave del previsto e la Federazione statunitense fa uno strappo alla regola decidendo a furor di popolo di portarla alle Olimpiadi al posto della Kwan.

L'eterea Nancy in primo piano, e la "cattiva" Tonya sullo sfondo

Il patatrac scoppia pochi giorni dopo: l’aggressore é uno scagnozzo assoldato dal marito di Tonya Harding, e le presunte minacce di morte una messinscena nel quadro di un disegno criminale più ampio.
Ma in attesa di un giudizio definitivo (il suo coinvolgimento sarà acclarato definitivamente solo in seguito) si decide di portare in Norvegia anche la Harding.
Così, il 23 febbraio a Lillehammer va in scena l’atto finale, come nel più classico dei polpettoni sentimentali hollywoodiani.
Tonya, novella “Crudelia Demon”, sbaglia tutto fra pianti e crisi isteriche. Nancy, la fidanzatina d’America, conquista una medaglia d’argento che con un po’ di buona sorte poteva essere d’oro.
Entrambe chiuderanno lì la loro carriera: Nancy monetizzerà a dovere l’improvvisa notorietà, mentre Tonya si arrabatterà fra video porno col consorte cospiratore e spogliarelli in nightclub di provincia.
Arriviamo così ai giorni nostri, alla Formula Uno in particolare. Giusto per dimostrare che le tecnologia spinta a livelli inimmaginabili ai profani non preserva necessariamente dalle truffe da strapaese.
Siamo nel 2007 e Nigel Stepney, dal 1993 meccanico della Ferrari, non é decisamente di buon umore. Si aspettava una promozione dopo l’abbandono del Direttore Tecnico Ross Brawn, ma ciò non accade.
Stepney non la prende bene e decide di vendicarsi, trasformandosi in un bambino birbante e capriccioso.
Il primo sabotaggio é esilarante, e consiste nel versare delle vitamine  in polvere  nel serbatoio di Raikkonen e Massa per far ingolfare il motore.
Il secondo é più elaborato, e coinvolge anche i grandi rivali della McLaren. Trattasi della cessione di dati top secret sulla monoposto di Maranello a un tecnico della squadra inglese, tale Mike Coughlan.
Ma il Gatto e la Volpe come spie lasciano alquanto a desiderare: a fare scoppiare il caso é infatti l’impiegato della copisteria in cui fanno fotocopiare i documenti segreti, che insospettivo telefona alla Ferrari.
Ma al peggio non c’é mai fine, e due anni dopo scoppia l’affaire Piquet, che porta alla radiazione (pur fra mille contestazioni) di Flavio Briatore.
La vicenda riguarda il G.P. di Singapore dell’anno precedente. Nelson Piquet junior come pilota non ha un briciolo del talento del padre, ma la Renault capitanata da “Mister Billionaire” gli dà comunque l’occasione per rendersi utile.
Il suo compito é schiantarsi contro muro. Nel punto giusto e al momento giusto (e possibilmente senza farsi male): in modo da agevolare gli strateghi del team, che già a conoscenza del momento dell’interruzione e del conseguente ingresso della Safety Car, possono così predisporre un piano di corsa infallibile per il compagno Alonso (che infatti vince).
Un anno dopo Piquet, appena licenziato dalla Renault per scarsità di risultati, si ricorda di quella losca storia, spiattella tutto e ottiene soddisfazione.
Può bastare? Diciamo di sì. Abbiamo percorso quasi un secolo di sport, spaziando da quelli di fatica a quelli di destrezza, da lestofanti europei a maneggioni d’Oltreoceano,da vecchie volpi a giovani sin troppo ambiziosi. Quanto al movente, sempre e solo quello di primeggiare, mettersi in luce, strappare un attimo di notorietà, beh, ci rassicura pienamente sul fatto che l’elenco sarà aggiornato a breve….

giovedì 17 febbraio 2011

Storie di calcio d’Oltrecortina



Sembra incredibile, alla luce del rutilante circo mediatico-mercantile che é diventato il calcio ai giorni nostri.
Eppure c’é stato un tempo, neanche troppo lontano (si parla necessariamente del secondo Dopoguerra in avanti), in cui un calcio marziale, disadorno, sottomesso alla ragion di Stato, teneva testa a quello opulento dell’Europa occidentale e a quello naif ma altrettanto virtuoso del Sudamerica.
E’ il football dell’Est Europa, dei Paesi finiti nell’area d’influenza dell’Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale, impregnato di oscure e inquietanti storie che odorano di KGB e film di spionaggio.
Dinamo, Cska, Torpedo, Lokomotiv: nomi tetri e militareschi, espressione di apparati burocratici o rami dell’esercito, che battezzano le squadre di Mosca come quelle di Sofia o Berlino Est.
Stipendi da impiegati del catasto, qualche giorno di licenza premio come ringraziamento per i servigi prestati, facce seriose per non dire funeree.
A monte, una curiosa anomalia che riguarda proprio la nazione guida, l’Urss. Certamente non la prima ad affacciarsi sul proscenio calcistico mondiale.
L’Ungheria in particolare, ma anche la Cecoslovacchia,  ereditano infatti la sapienza calcistica maturata prima della guerra, quando il cosiddetto calcio “danubiano” ( che ebbe la massima espressione nel “Wunderteam” austriaco anni ’30), dettava legge nel Vecchio Continente.
La stessa Yugoslavia porta a casa una medaglia d’argento nella prima manifestazione post-bellica, le Olimpiadi di Londra 1948.
La ben nota “via jugoslava al comunismo”, applicata da Tito in parziale indipendenza da Mosca, si riverbera anche nelle faccende calcistiche, facendo quasi subito dei nostri vicini adriatici un’eccezione nel panorama orientale.
A partire dalla seconda metà degli anni ’50, infatti, non é per nulla inusuale vedere calciatori slavi calcare i palcoscenici occidentali per gentile concessione di Belgrado.
I fratelli Cajkovski, protagonisti dell’impresa del ’48, finiranno in Germania (Ovest, s’intende), come di lì a qualche anno il portiere Beara e il fortissimo Zebec.
Il fuoriclasse Vukas approderà con scarsa fortuna al Bologna, mentre Vujadin Boskov (sì, quello del “rigore é…quando arbitro fischia!”) sbarcherà a Genova in compagnia di Veselinovic, prendendo confidenza con l’ambiente sampdoriano prima di tornarvi trionfalmente da allenatore un quarto di secolo dopo.
Se la Cecoslovacchia raggiunge il suo apice con la finale Mondiale del 1962, é però l’Ungheria l’indiscutibile faro del calcio comunista.
Sul finire degli anni ’40 sboccia infatti una generazione di fuoriclasse irripetibili: Ferenc Puskas su tutti, e a ruota Bozsik, Kocsis, Hidegkuti, Grosics e Czibor. E’ l’Aranycsapat (la squadra d’oro): il gradino più alto del podio alle Olimpiadi del 1952, una epica vittoria contro i “maestri” inglesi (prima squadra continentale ad espugnare  Londra), e il Mondiale del 1954, stradominato e poi perso sciaguratamente contro una modestissima (e probabilmente dopata) Germania Ovest.
All’appello, in quella magnifica squadra, mancano però due grandi solisti, rimasti ai margini di quell’orchestra indimenticabile.
Il primo é Ferenc “Bamba” Deak. Di professione macellaio, é un centravanti di potenza inaudita, alquanto anomalo nel contesto elegante e flemmatico del football magiaro. Mostruoso il suo score in Campionato nella seconda metà degli anni ’40: 66 goal nel ’46, 48 nel ’47, 41 nel ’48, 59 nel ’49.
Si rivelerà fuori dal coro  non solo per ragioni tecniche. Inviso forse al grande Puskas e, cosa assai peggiore, al Regime per colpa di qualche esternazione di troppo, perde presto il posto in Nazionale, per poi eclissarsi lentamente fino a sparire mestamente di scena.
Il secondo é Laszlo Kubala. Enfant prodige al pari di Puskas, ma decisamente più inquieto del rivale, ha doppio passaporto per via dei genitori, originari di Bratislava, in Cecoslovacchia (nella cui Nazionale giocherà 6 partite).
Così nel 1946 fugge allo Slovan Bratislava, dove si innamora della figlia dell’allenatore, che presto gli darà un figlio.
Torna in Ungheria senza la famiglia, ma stavolta gli tolgono il passaporto e lo inseriscono nella famigerata “Legione Rossa”.
Allora Kubala decide per un’altra fuga: quella definitiva, quella verso l’Occidente.  Cerca contratti nei grandi club italiani, mantenendosi in forma con qualche partitella nella Pro Patria di Busto Arsizio, ma la Federazione Ungherese  dice niet.
Così fonda col suocero Ferdinand Daucik, l’Hungaria, un’Armata Brancaleone che raccoglie tutti i calciatori ungheresi in fuga per l’Europa.
Primo e unico esempio di squadra non stanziale nella storia, l’Hungaria é un ordine di cavalieri senza titoli, senza signori cui giurare fedeltà, che vaga di paese in paese in cerca di gloria e di qualche tozzo di pane.
I nostri eroi approdano infine nell’accogliente penisola iberica, dove dei profughi in fuga dal comunismo sono manna dal cielo, trofei da esibire nella vetrina della propaganda del regime fascistoide del Generalissimo Franco.
Non é il caso di sottilizzare, quando non sei altro che una patata bollente da palleggiare da un'ambasciata all'altra. Ma le strade più battute non fanno per Laszlo che, sempre col suocero in panchina, preferisce il Barcellona, portabandiera della Catalogna che resiste fieramente al Franchismo.
I sanguinosi fatti del 1956 pongono fine all’epopea dell’Aranycsapat. In tournée per l’Europa al momento della rivolta, Puskas, Kocsis e Czibor fuggiranno in Spagna: il primo al Real Madrid, gli altri due al Barcellona, dove ritroveranno Kubala.
E la “grande madre Russia”? Assente ingiustificata. Almeno fino al 1956, quando vince a mani basse le Olimpiadi di Melbourne.
E’ una squadra che annovera un fuoriclasse stratosferico, il leggendario portiere Yaschin, tanti buoni giocatori (Netto, Simonian, Valentin Ivanov), e un cucciolo di campione, Eduard Streltsov, cui verrà impedito di mantener fede alle promesse.
Diciannove anni, Streltsov é un geniaccio irriverente, ha il carattere da star occidentale, numeri da brasiliano (ancora oggi i russi chiamano “streltsov” il colpo di tacco) e una squadra, la Torpedo Mosca, non proprio nelle grazie della nomenclatura: certo meno influente del CSKA, il club dell’esercito, o della Dinamo, emanazione dei servizi segreti.
La favola del ribelle Streltsov si trasforma in incubo due anni dopo, alla vigilia dei Mondiali di Svezia.

Eduard Streltsov

L’indomani di una festa organizzata nell’entourage sovietico, viene infatti accusato di violenza carnale: indotto a confessare in cambio della falsa promessa di un’immediata riabilitazione, finirà in un gulag.
Assai diversa, peraltro, la versione dei bene informati: pare che Stretsov, leggermente brillo, avesse respinto le avances della figlia, non particolarmente avvenente, di una funzionaria del Politburo, con un poco elegante “non andrò mai con quella scimmia!”.
Verità o leggenda, tornerà al calcio parecchi anni dopo, giusto in tempo per concludere una carriera comunque bruciata, per poi morire a 53 anni, per un tumore alla gola, retaggio, chissà, degli anni di prigionia.
Gli anni ’70 settanta segnano il tramonto del calcio ungherese, che avrà in Florian Albert, Pallone d’Oro 1967, l’ultimo campione di un certo livello, per poi declinare in modo inarrestabile fino alla desolante mediocrità di oggigiorno.
Salgono invece alla ribalta nuove nazioni: la Polonia di Deyna e Lato (un oro olimpico e due semifinali mondiali nel giro di dieci anni), la Bulgaria di Bonev, la Romania di Georgescu.
E la Germania Est, straripante nell’atletica leggera e in tutti gli sport che hanno nelle Olimpiadi la propria espressione più alta, quanto mediocre nel gioco più in voga nell’Europa capitalista.
Non é esatto dire che il football non fosse gradito ai burocrati di Berlino Est. Prova ne sia il fatto che il presidente della Dinamo Berlino fosse niente popò di meno che il capo della STASI, Erich Mielke.
Uno a cui piaceva vincere facile: lo squadrone berlinese, agevolato senza pudore dagli arbitri e destinazione obbligata (nell’accezione più spinta del termine) per tutti i migliori giocatori, porterà a casa qualcosa come dieci scudetti consecutivi fra il 1978 e il 1988!
Ci sarebbe quasi da ridere, se non fosse che chi non gradiva la destinazione faceva una brutta fine. Come Lutz Eigendorf, giovane promessa della Dinamo che nel 1979 fuggì all’Ovest, destinazione Kaiserslautern.
Mielke fa mettere sotto sorveglianza la famiglia rimasta nella DDR: la moglie finirà per sposare una delle spie che la controllavano (quando si dice oltre al danno la beffa…) e lui morirà in un incidente stradale nel 1983. Solo anni dopo, una volta svelati i dossier più spinosi, si avrà certezza di ciò che tutti avevano intuito: Eigendorf fu avvelenato prima di mettersi alla guida.
Lutz Eigendorf dopo la fuga dalla DDR

Il calcio DDR raggranella comunque quattro medaglie olimpiche, di cui una d’oro (Montreal 1976), ma ha il suo unico vero giorno di gloria il 22 giugno 1974, quando ad Amburgo sconfigge i cugini occidentali nel girone eliminatorio del Campionato del Mondo.
Merito del goal di tale Jurgen Sparwasser, carneade destinato ad imperitura memoria per un’impresa quanto mai estemporanea, visto che la Germania Ovest vincerà ugualmente quel Mondiale casalingo, e del calcio giocato nella parte di Germania di là dal Muro si ricorderà poco altro.
Intanto i Ministeri dello Sport d’Oltrecortina cominciano ad allentare le briglie. Prende piede l’abitudine, già in voga come detto nella meno intransigente Yugoslavia, di concedere ai campioni più “agés” di espatriare sul finire di carriera: giusto per monetizzare qualcosa, ma non prima di aver immolato il meglio della carriera per la Patria.
Così il grande polacco Deyna dopo un paio di stagioni in Inghilterra, attraverserà l’Oceano a trentaquattro anni per dare gli ultimi calci negli States. Il ceko Nehoda allo scoccare dei trenta prenderà la via della Germania Ovest, mentre l’idolo ucraino Blokhin dovrà attendere i trentacinque per lasciare Kiev e raggranellare qualche buon ingaggio in Austria e a Cipro.
Ci vorranno invece i buoni uffici dell’Avvocato Agnelli per accelerare l’espatrio del ventiseienne polacco Boniek nel 1982 e del ventisettenne sovietico Zavarov nel 1988: zelo ben ripagato nel primo caso, assai meno nel secondo.
Già, perché il leit-motiv, calcisticamente parlando, degli ultimi anni della CCCP é la cronica incapacità dei giocatori sovietici ad adattarsi al calcio, e ancor più allo stile di vita, occidentale.
Ammaliati dai benefici del consumismo come bambini che entrano per la prima volta in una pasticceria, dissiperanno il loro talento con una facilità irrisoria, dando una botta non indifferente allo stereotipo sin lì in voga che voleva i figli del Comunismo austeri e impermeabili ai piaceri materiali.
Detto dello stralunato Zavarov juventino, vanno ricordati Igor Belanov, Pallone d’Oro 1986, che militerà nel Borussia Moechengladbach con risultati disastrosi, e il biondissimo Mikhailichenko, che apporterà un contributo minimo allo scudetto sampdoriano del 1991.
Peggio di tutti é andata però a Rinat Dasaev, ieratico guardiano della porta dello Spartak Mosca, definito da molti “il nuovo Yaschin”.
Il suo trasferimento al Siviglia farà la fortuna di qualche burocrate moscovita: lui viceversa finirà sull’orlo dell’alcolismo e per due volte nel fosso che delimita il Palazzo dell’Università, concludendo ingloriosamente una grande carriera.
A proposito di Siviglia: é sempre il capoluogo andaluso a decretare il trionfo e la fine di un altro grande portiere, il rumeno Helmut Ducadam.
Semisconosciuto estremo difensore della Steaua Bucarest, il mondo si accorge di lui il 7 maggio 1986, quando para quattro rigori su quattro nella finale di Coppa dei Campioni contro il favoritissimo Barcellona.
Un eroe nazionale, la cui gloria, certo indigesta a molti, dura lo spazio di un mattino.
Tempo un mese e poco più, infatti, e su di lui cala l’oblio, repentino e assordante.
Le laconiche fonti ufficiali liquidano la faccenda parlando di una violenta trombosi a un braccio che pone inevitabilmente fine alla carriera del grande campione.
Strano, per uno che qualche settimana prima dimenava quei possenti arti come enormi tentacoli. E infatti c’é dell’altro.
Qualcuno, pare, ha omaggiato Ducadam di un regalo troppo ingombrante. Si vocifera di una Mercedes, dono addirittura di Re Juan Carlos di Spagna, tifosissimo del Real Madrid e grato al portierone per aver inferto una ferita mortale ai rivali del Barcellona.
Qualunque fosse il regalo, e chiunque ne fosse l’autore, il figlio di Ceausescu arroga a sé il diritto d’impadronirsene. Ducadam rifiuta e i bravi del piccolo dittatore gli fracassano le mani a sprangate.
E’ un sistema, quello del calcio dell’Est, che sta implodendo, parallelamente al sistema politico sovrastante.
L’ultimo vagito é l’Unione Sovietica futurista e fantascientifica di Valeri Lobanovski, colonnello dell’Armata Russa con velleità da apprendista stregone.
Il suo laboratorio é la Dinamo Kiev, di fatto trapiantata pari pari in Nazionale. La sua é una versione in salsa calcistica del collettivismo bolscevico, con giocatori trasformati in pedine perfettamente interscambiabili e sincronizzate.
Ma il cosiddetto “calcio del Duemila”, stringi stringi, raccoglie poco: una Coppa delle Coppe con la Dinamo Kiev nel 1986, e una finale agli Europei nel 1988.
L’ultima esibizione internazionale dell’Urss, a Italia ’90, é un pianto. Lobanovski si trova a radunare giocatori sparsi per l’Europa, spaesati e appesantiti, e capisce che il suo calcio, fatto di allenamenti maniacali e schemi da riprovare ossessivamente fino allo sfinimento, non é più riproducibile.
Meglio faranno la Yugoslavia (anche lei all’ultima recita prima dello smembramento degli anni successivi), la Romania e la Cecoslovacchia.
Forse più inclini storicamente al nomadismo, slavi, ceki e rumeni si caleranno con prontezza in un calcio profondamente diverso e faranno tesoro dell’aggiornamento professionale loro elargito, tanto che le rispettive nazionali risentiranno solo in parte del brusco cambio di rotta. Al contrario dell’ex-Urss, appunto, che darà cenni di vita solo nel 2006 (quarti di finale mondiali per l’Ucraina di Shevchenko) e nel 2008 (semifinali europee per la Russia).
Quanto ai club, le Dinamo, le CSKA, le Lokomotiv, riemergeranno sul palcoscenico europeo nel Terzo Millennio, foraggiate non più da qualche plumbeo Ministero, bensì da magnati e faccendieri dalle discutibili fortune. Ma questa, é proprio un’altra storia.