mercoledì 21 settembre 2011

Eto'o e i suoi antenati: i grandi addii

Se proprio certe disgrazie devono capitare, meglio che accadano a chi ci ha già fatto il callo.
Per un malato di tifo (calcistico, s’intende) non é facile assistere alla dipartita del proprio idolo alla volta della steppa e di un paese dal nome degno di un romanzo di Tolkien. A fare il giullare di corte di un enigmatico parvenu post-sovietico, dall’inquietante passato e dall’opulento presente.
Il tifoso interista, tuttavia, ne ha viste di cotte e di crude negli ultimi anni, e ha imparato a metabolizzare.
Lo stesso Samuel Eto’o, a ben vedere, era stato chiamato a sostituire (e all’epoca non pochi torsero il naso) il grande Zlatan Ibrahimovic, poi caduto vittima di misteriose crisi intestinali, leggasi mal di pancia per lo scarso appeal internazionale dei nerazzurri.
Ma quando uno ha visto partire come un fuggiasco (estate 2002), senza un grazie, senza un mi dispiace, il Fenomeno Ronaldo, venerato nella sua indimenticabile stagione d’oro (campionato 1997/98) e poi amorevolmente accudito come un figlio moribondo durante l’interminabile degenza, la sindrome da abbandono gli fa un baffo.
Che la gratitudine non sia di questo mondo, Massimo Moratti l’aveva capito per tempo. Come dimenticare la fuga, peraltro ben meno dolorosa, del nigeriano Nwankwo Kanu, acquistato dall’Ajax nel 1996 con le stimmate del futuro campione, prima che gli venisse riscontrata una misteriosa anomalia cardiaca. Curato per un anno intero a spese dell’Internazionale Football Club, fa in tempo a giocare mezza stagione in nerazzurro, prima di fuggire destinazione Arsenal, dove solo in parte mantiene fede alle promesse giovanili.
Del resto ha  vestito la maglia nerazzurra il “traditore” per eccellenza del nuovo millennio, Luis Figo, passato dal Barcellona agli odiati rivali del Real Madrid.
E’ il 2000 e sulle reti Mediaset imperversa come opinionista Arrigo Sacchi (e il suo alter ego Maurizio Crozza a “Mai dire goal”). I quali tessono le lodi del calcio spagnolo, l’uno con aria sentenziosa l’altro con fare canzonatorio, additandolo a emblema di sportività e fair-play, in palese e polemica contrapposizione col triviale football nostrano.
Questo fino a quando gli inferociti tifosi catalani, in un indimenticabile Barça-Real in quel di Barcellona, non lanciano alla volta del loro ex-beniamino, intento  a battere un calcio d’angolo, una testa di maiale grondante sangue, messaggio minatorio-mafioseggiante mutuato da “Il padrino” (ma lì la testa era di un cavallo …).
Tutto il mondo é paese, insomma. E del resto, proverbio per proverbio, se Atene (vedi Inter) piange, Sparta (Milan) non ride.
Gli addii di Andryi Shevchenko (2006) e Kakà (2008) sono stati digeriti rapidamente più che altro in virtù del repentino e non preventivabile declino dei due fuoriclasse. Ma sul momento provocano vere scene d’isteria collettiva nell’imperturbabile capitale meneghina.
L’ucraino Sheva, faccia da bravo ragazzo cresciuto nell’Urss ormai prossima allo sfaldamento, parte per Londra, sedotto dal magnate russo Abramovich, con il precipuo scopo (ipse dixit) di agevolare l’apprendimento della lingua inglese da parte dei figli.
Missione compiuta: lui diventa pure un buon giocatore di golf, ma del micidiale attaccante che squarciava le difese di mezza Europa neanche l’ombra.
E così il temporaneo ritorno in prestito a Milano, nell’estremo tentativo di ritrovare lo smalto di un tempo, non si rivela altro che una parentesi straziante per tutti: nessun rimpianto, nessuna lacrima viene versata per il secondo addio dell’ucraino ai rossoneri.
Ma Shevchenko andava già per i trent’anni. Kakà, faccia d’angelo pure lui e devoto a Nostro Signore come una perpetua di campagna, pare invece al top della carriera, quando lascia Milano travolto da una pioggia di euro elargiti dal palazzinaro spagnolo Florentino Perez.
I primi due anni di Kakà al Real Madrid sono stati sinora un pianto, e certi problemi fisici timidamente emersi nell’ultimo periodo milanista sono esplosi in terra spagnola, al punto da far sospettare che dietro i dispiaceri di prammatica si celasse in Galliani e compagnia la segreta speranza di aver rifilato agli iberici una colossale fregatura.
Abbiamo finora citato vicende alquanto recenti. Un po’ perché, é chiaro, la memoria a breve termine viene più facilmente in soccorso in questi casi. E un po’ perché la vorticosa girandola di carne umana che sta diventando il calciomercato negli ultimi anni, agevola sempre più situazioni simili, laceranti per i tifosi quanto remunerative per i diretti interessati.
Si fa più fatica andando indietro con gli anni, quando cambiare casacca era meno frequente e i trasferimenti fra club divisi da accese rivalità rimanevano veri e propri tabù.
Tutto in fondo ebbe inizio nel 1913. Il milanista Renzo De Vecchi, ha diciannove anni ma gioca in Nazionale da quando ne ha sedici: é soprannominato “il figlio di Dio” e non credo ci sia altro da aggiungere.
Milanese doc, é già una bandiera rossonera (e un personaggio di notevole impatto mediatico, si direbbe oggi), quando dal Genoa, la squadra più forte del momento, arriva una proposta irrinunciabile.
Oddio, una proposta che oggigiorno non indurrebbe nemmeno un giocatore di serie C ad alzare la cornetta del telefono: ma assolutamente indecente per l’epoca.
Trattasi, ebbene sì, di un posto in banca alla Comit di Genova, disposta a offrire, in tacito accordo coi “Grifoni”, uno stipendio ben superiore a quello che “il figlio di Dio” percepiva da impiegato (il professionismo era ancora di là da venire …) alla Banca di Milano.
Con lui, per inciso, arrivano anche tali Sardi e Santamaria (entrambi dai vicini dell’Andrea Doria), beccati tuttavia in flagrante a riscuotere un cospicuo assegno elargito dal Genoa, in palese violazione delle  puerili norme sul dilettantismo vigenti nell’epoca pionieristica (passi offrire posti di lavoro, ma soldi neanche a parlarne!!), e pertanto squalificati con ignominia.
De Vecchi fa giusto in tempo a dare un saggio della sua classe vincendo insieme ai riabilitati Sardi e Santamaria lo scudetto nel 1915, per riallacciare il discorso dopo la Prima Guerra Mondiale e portare i genovesi al successo nei campionati del 1923 e del 1924.
Ma la casistica é alquanto variegata e interessante, e per un motivo molto semplice: a differenza di oggi, non si divorziava solo per questioni di vil denaro.
Ci sono stati addii carichi di rancore.
Dall’Argentina con livore, l’addio dell’iracondo per antonomasia Omar Sivori (battezzato non a caso “il testone”), si consuma in pratica in due tranches.
Protagonista assoluto con il gigante buono Charles (gemello inseparabile come Arnold Schwarzenegger lo era di Danny De Vito nel famoso film) della meravigliosa Juventus a cavallo fra i ’50 e i ‘60, porta a casa tre scudetti e un Pallone d’Oro.
Ineguagliato amore calcistico dell’Avvocato (almeno fino all’avvento di Platini), lascia Torino, e non certo per sua scelta, nel 1965: in apparente fase calante e dopo qualche bizza di troppo.
Grande architetto dell’operazione, l’allenatore paraguaiano Heriberto Herrera, inflessibile nei rapporti coi giocatori e fautore di quel calcio iper-atletico e votato agli schemi che esploderà dagli anni ’70 in poi.
Così Sivori sbarca a Napoli, dove libero da pressioni d’alta classifica e travolto dalla passione dei partenopei, vive una seconda giovinezza.
Ma il tarlo di quell’abbandono lo rode ancora, per tre lunghi anni. Ormai in rotta di collisione anche con l’ambiente napoletano, ritrova la Juventus, sempre in mano al sergente di ferro Herrera, il 1 dicembre 1968. All’ennesima provocazione del suo marcatore, Pierino Favalli, risponde da par suo: reazione inconsulta e cartellino rosso con  gigantesca zuffa incorporata.
Squalificato per sei giornate, esplode in conferenza stampa vomitando rabbia sulla Juve e sul suo nemico giurato.
Ormai abbandonato da tutti, decide di tornare in Argentina. Renato Cesarini, ex gloria juventina, gli offre un posto al River Plate, la squadra da dove aveva spiccato il volo, ma ormai non é più cosa: Omar Sivori lascia il calcio nel peggiore dei modi, a soli 33 anni.
Ci sono addii furtivi: talvolta in sintonia con il rapporto fugace di cui sanciscono la fine, talvolta del tutto inadeguati ad esso.
C’é un altro argentino, lo sappiamo bene, che ha infatti infiammato Napoli come e più di Sivori.
Ma Napoli e Diego Armando Maradona non si sono neanche salutati per l’ultima volta. Un amore tormentato e travolgente, finito un giorno qualsiasi, al termine di una partita che poteva essere come tante altre, Napoli-Bari, giornata 8 del girone di ritorno, stagione 1990/91.
Ed invece era l’ultima.
“El Pibe de Oro” era sbarcato all’ombra del Vesuvio sei anni e mezzo prima, nell’estate del 1984. Sei anni e mezzo vissuti pericolosamente, fra trionfi mai nemmeno sognati da una tifoseria vergine di successi, relazioni pericolose con la criminalità, liti, tradimenti e chi più ne ha più ne metta.
Il rapporto era ormai agli sgoccioli, lo si capiva. Con Napoli e con il calcio italiano tutto: come dimenticare l’”hijos de puta!!” urlato in faccia all’intero Stadio Olimpico che fischiava l’inno argentino, finale di Italia ’90.
Ma uno così, sia che lo si veda come proprio condottiero che come il più acerrimo dei nemici, merita un addio in pompa magna.
E invece il più grande calciatore mai visto nel nostro campionato esce di scena dalla porta di servizio, il 17 marzo 1991. Trovato positivo alla cocaina (vizio a lungo colpevolmente celato), Maradona se ne va da un giorno all’altro, per non tornare mai più a Napoli.
Abbiamo già citato i casi di Boyé e Martino, capostipiti di tutta una teoria di calciatori sudamericani fuggiti improvvisamente dal Belpaese causa un’incapacità cronica di adattamento.
A loro va affiancato il trio argentino composto da Enrique Guaita, Alejandro Scopelli e Andres Stagnaro. Che approdano alla Roma nel 1933 fra squilli di tromba, e di soppiatto se ne vanno due anni dopo.
Il fatto é che a quei tempi naturalizzare i calciatori sudamericani di discendenze italiane é la norma, soprattutto se di apprezzabile levatura. E se Stagnaro é un onesto mestierante e nulla più, Guaita e Scopelli sono due campioni.
Guaita é addirittura una colonna della squadra italiana che vince il Mondiale a Roma nel 1934, e diventa un eroe dell’Italia fascista.
Bello, essere accolti così affettuosamente dalla propria patria d’adozione. Ma quando agli onori si aggiungono gli oneri, leggasi imbracciare un fucile e partire per la Guerra d’Etiopia, ecco che tutto d’un tratto ti torna la nostalgia di casa.
E così i nostri tre eroi, che peraltro con ogni probabilità l’avrebbero sfangata comunque (i calciatori erano cittadini diversi dagli altri sin da allora …), il 19 settembre 1935 raggiungono (prima in auto poi in treno) Ventimiglia, da dove varcano nottetempo la frontiera francese, per infine imbarcarsi su un piroscafo destinazione Argentina.
In curioso e francamente inspiegabile parallelismo con i sudamericani, i calciatori inglesi si son resi spesso protagonisti di dipartite rocambolesche dal nostro Paese, che viceversa i loro connazionali paiono particolarmente apprezzare nella veste di turisti.
Come dimenticare il centravanti Jimmy Greaves, uno dei più prolifici bomber inglesi della storia.
Approda al Milan nell’estate del 1961 con qualcosa come 124 goal all’attivo nel Campionato inglese (e ha solo 21 anni …).
Con lui, però, arriva nel capoluogo lombardo anche un nuovo allenatore, Nereo Rocco. Uno che ha fatto faville in provincia, a Padova, a colpi di catenaccio e motti  dialettali, e che a occhio e croce non pare aver una gran dimestichezza con le étoile eccentriche e bizzose.
Greaves é un fuoriclasse in campo (9 goal in 12 partite), ma pure nel piantar grane. Si presenta in ritardo al raduno estivo e da lì sarà un’escalation di capricci, notti brave, sbronze colossali e plateali atti di insubordinazione.
Rocco, che condivide con il geniaccio inglese l’amore per gli alcolici (Jimmy per la birra, il “Paron” per il vino) e poco altro, si stanca in fretta.
E così a novembre il colpo a sensazione della campagna acquisti milanista é già su un aereo per Londra, con la ragguardevole media di un goal a partita e di una marachella al giorno. In patria continuerà a segnare goal a raffica, mentre Rocco, troverà nel suo sostituto, il vetusto e cerebrale brasiliano Dino Sani, l’uomo della provvidenza che gli farà vincere quel campionato: e  così, per una volta, tutti vissero felici e contenti.
Tornando a Nereo Rocco, ci sono addii che non sono addii.
Sulla scia di quello scudetto rocambolesco, infatti, il “Paron” vince l’anno seguente la Coppa dei Campioni (prima squadra italiana a riuscire nell’impresa), a Wembley contro il Benfica di Eusebio.
Sono due anni magici, conditi dalla scoppiettante rivalità col dirimpettaio interista, il “Mago” Helenio Herrera, altro grande istrione della panchina.
All’apice del successo, però, Rocco lascia.
In contemporanea col Presidente che l’aveva scelto, Angelo Rizzoli, e forse fiaccato dal tormentato rapporto col plenipotenziario rossonero Gipo Viani. L’amico-nemico di una vita, lo stratega con cui condivide (la questione é annosa e dibattuta) l’invenzione del “libero”, il quasi conterraneo con cui parla lo stesso dialetto (quello veneto) ma non sempre la stessa lingua.
Rocco va al Torino, che non é esattamente una fuoriserie, e lì vive in una sorta di semi-anonimato per quattro anni, funestato peraltro dalla tragica morte del giovane fuoriclasse Gigi Meroni.
Poi, nel 1967, il grande ritorno.
Rivera è più forte di quando l’aveva lasciato, ci sono ancora Trapattoni, Lodetti e Mora. E in più i fidi Roberto Rosato, ex Toro, e l’ormai stagionato Kurt Hamrin, suo vecchio pupillo ai tempi del Padova.
Il Rocco bis è un trionfo, meglio ancora della prima versione. Scudetto e Coppa delle Coppe il primo anno, poi la seconda Coppa dei Campioni e la conseguente Coppa Intercontinentale, (sfuggita sei anni prima), più un’altra Coppa delle Coppe nel 1973 e due Coppe Italia: alla faccia di chi dice che le minestre riscaldate risultano sempre insipide!
Ci sono invece addii che preludono a un ritorno, che a sua volta é l’anticamera di un nuovo tradimento.
Johan Crujff cresce a pane e Ajax. E’ infatti il figlio di una donna delle pulizie del club di Amsterdam, fino ad allora ai margini del calcio che conta, come del resto il football olandese in generale.
Ma con lui, Neeskens, Krol e il grande maestro Rinus Michels, l’Ajax arriva sul tetto del Mondo, praticando quel gioco post-moderno che passerà alla storia come “calcio totale”.
Nell’estate del 1973, alla vigilia della stagione che lo porterà a sfiorare la vittoria ai Mondiali con l’Olanda, Cruijff saluta la casa madre e passa per una cifra iperbolica al Barcellona (circa 2 milioni di dollari dell’epoca).
Dopo aver dato ampio sfoggio del suo talento in Catalogna, va a giocare anche in America (e sono altre montagne di dollari …). Infine, nel 1981, a trentaquattro anni suonati, torna al vecchio amore, l’Ajax, dove tanto per cambiare conquista altri due scudetti.
La perfetta chiusura di una carriera leggendaria? Neanche per sogno.
Perché a trentasei anni, ormai pallido ricordo del fuoriclasse che fu, Cruijff lascia la squadra nella quale é cresciuto, per approdare agli acerrimi rivali del Feyenoord (inutile dire che vince il campionato …). Perché infliggere una simile sofferenza ai propri tifosi, ora che il viale del tramonto é ormai imboccato? Beh qui a pensare che ci siano di mezzo dei sonanti bigliettoni  probabilmente non ci si sbaglia …  
Ci sono addii lì per lì lancinanti, e tuttavia ridimensionabili dall’evolversi degli eventi.
Quando Roberto Baggio, reduce dalle performances strepitose di Italia ’90, lascia la Fiorentina per raggiungere gli odiatissimi nemici della Juventus (e da quelle parti quando si odia qualcuno c’é poco da scherzare), tutta Firenze scende in piazza.
Lui, per ricomporre almeno in parte il dissidio, rinuncia a tirare un rigore contro la sua ex squadra, il giorno della sua prima partita da juventino allo Stadio Franchi.
Ma dopo la Juve arrivano il Milan, il Bologna, l’Inter, il Brescia. E si capisce che Baggio non é uno da fare la bandiera a vita, o il capopopolo, di qualsiasi popolo si tratti: é di tutti, di tutti quelli che amano il bel calcio.
Meglio così, avrà pensato qualcuno che Firenze che non aveva mai dimenticato: perché un conto é quando l’uomo della tua vita ti lascia per sposare la tua peggior nemica, un conto é quando scopri che il ragazzo è, per così dire, “farfallone” di natura …
Ci sono addii misteriosi e struggenti.
E’ assai nota la vicenda di Mathias Sindelar, sontuoso attaccante  dell’Austria Vienna, ai tempi (anni ’20-’30) in cui Vienna era una delle capitali del calcio mondiale.
Detto “Cartavelina” per il fisico sottile e filiforme, è il giocatore di maggior classe del Wunderteam, la Nazionale austriaca che contende in quegli anni all’Italia la leadership continentale.
Ma il 12 marzo 1938 il Wunderteam sparisce dal panorama calcistico internazionale: anzi, é l’Austria a sparire dalle cartine geografiche, annessa alla Germania Nazista.
Così i migliori calciatori austriaci accettano, loro malgrado, di vestire la maglia della Nazionale tedesca e, come facile immaginare, la rinforzano sensibilmente. Molti, ma non tutti. Non Sindelar e il suo compagno di club Karl Sesta.
Incerte e dibattute sono le origini ebree di Sindelar: del tutto comprovate lo sono invece quelle del Presidente dell’Austria Vienna Michl Schwarz, brutalmente defenestrato ma difeso a spada tratta dal suo giocatore più famoso.
Durante un’amichevole celebrativa dell’Anschluss (nella quale segnano proprio Sindelar e  Sesta), i due si rifiutano di salutare i gerarchi nazisti presenti in tribuna: è l’inizio della fine.
Karl Sesta finirà col cedere (indosserà la maglia della Germania, ma solo nel 1941). “Cartavelina”, invece se ne é già andato da un pezzo: trovato morto nel suo appartamento il 23 gennaio 1939 in compagnia di una ragazza italiana (una prostituta?) poche settimane dopo quella, a suo modo, storica partita. “Avvelenamento da monossido di carbonio”, la spiegazione ufficiale, che lascia tuttora aperte tutte le ipotesi.
Per certi versi simile la storia dell’ungherese Arpad Weisz. Arrivato in Italia negli anni ’20 come calciatore, dà il meglio di sé in panchina, dove si rivela un autentico maestro di calcio (scrive anche un apprezzatissimo manuale, “Il giuoco del calcio”).
E’ lui, imbeccato da Fulvio Bernardini, a far esordire nell’Inter, nell’agosto del 1927, il grande Giuseppe Meazza, allora diciassettenne.
Nella stagione 1929/30 (primo Campionato a girone unico) vince lo scudetto, sempre alla guida dei nerazzurri grazie anche ai 31 goal di Meazza.
Poi passa al Bologna. Quello che “tremare il mondo fa”, autentica corazzata costruita con passione dall’indimenticabile patron Renato Dall’Ara.
Sono due scudetti in due anni, e un “Torneo dell’Esposizione Universale di Parigi”, sorta di Champions League ante-litteram.
Finché una laconica e raggelante nota de “Il Resto del Carlino” del 26 ottobre 1938, annuncia l’approdo sulla panchina felsinea dell’austriaco Hermann Felsner (senza peraltro mai nominare Weisz): come se Guardiola si volatilizzasse un bel giorno e tutti a Barcellona voltassero la testa dall’altra parte.
Il fatto é che Arpad Weisz é ebreo. Insieme alla famiglia lascia in fretta e furia (è il gennaio del 1939) il nostro paese e si rifugia in Francia, poi in Olanda, dove allena per un po’ il Dordrecht. Poi i Nazisti  invadono anche i Paesi Bassi, e di Weisz si perdono le tracce.
La seconda parte della storia é, se possibile, ancora più incredibile e straziante. Perché neanche a guerra finita, nessuno, forse per la fretta di voltare pagina, forse per banale superficialità, si prende la briga di scoprire che fine abbia fatto l’allenatore più vincente della storia del Bologna.
Neanche il grande Enzo Biagi, che in un libro sulla storia del Bologna, racconta “era molto bravo, ma anche ebreo e chi sa come è finito”: solo supposizioni, brutti presentimenti.
Com’è finito lo scopre ai giorni nostri (cioè più di sessant’anni dopo!) un giornalista del “Guerin Sportivo”, Matteo Marani: Arpad Weisz é morto ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944, preceduto due anni prima dalla moglie e dai due figli nati in Italia.
Acerrimo rivale di Weisz è in quegli anni Carlo Carcano, nato a Varese ma piemontese d’adozione. Rivelatosi sulla panchina dell’Alessandria, dove lancia i futuri Campioni del Mondo “Giuanin” Ferrari e Gigi Bertolini, approda alla corte degli Agnelli nel 1930.
E’ la Juventus del “quinquennio”, dei cinque scudetti consecutivi. Ci sono i fedeli discepoli Ferrari e Bertolini, i fantastici oriundi Cesarini, Monti e Orsi, l’immarcescibile portiere Combi, il bomber Borel e l’indissolubile coppia di terzini “made in Piemonte” Rosetta/Caligaris.
Eppure, nell’albo d’oro che celebra quei cinque straordinari scudetti, Carcano compare nelle vesti di allenatore solo nei primi quattro. Viene infatti esonerato nel febbraio del 1935, con la squadra ben avviata a quello che sarà il quinto e ultimo titolo.
C’é da subito una cappa di omertà sull’argomento, che la stampa di Regime non si sogna certo di squarciare.
La verità, o almeno una versione plausibile, verrà fuori anche qui col tempo. Carcano avrebbe manifestato non meglio precisate tendenze omosessuali, ovviamente mal digerite dall’austera dirigenza bianconera, fino ad alcuni episodi, mai resi noti, che avrebbero coinvolto alcuni degli elementi più giovani della squadra.
In pieno Ventennio fascista, e in un ambiente già di per sé maschilista e conservatore, é sin troppo facile immaginare come la carriera ad alto livello di Carcano potesse considerarsi seduta stante conclusa.
Un’estemporanea esperienza al Genoa in B come vice di Renzo De Vecchi (quasi un atto di contrizione per un fuoriclasse della panchina come lui), e poi nulla fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Torna nel Dopoguerra, ma senza risultati degni di nota. Inter, Fiorentina, Atalanta e infine il primo amore, l’Alessandria: se ne esce così di scena, l’unico allenatore ad aver vinto quattro Campionati di serie A consecutivamente.
Con una piccola grande soddisfazione, che in parte rende giustizia del danno subito: quello di vedere il torneo per ragazzi da lui fondato con alcuni amici nel 1947, il “Carlin’s Boys” di Sanremo, diventare un punto di riferimento per tutto il calcio giovanile mondiale.
E ci sono, infine, addii che trasudano di dignità.
Come quello del grande Gigi Riva. Quinto moro ad honorem della bandiera sarda (lui che veniva dall’hinterland milanese), una vita calcistica e non solo votata al Cagliari e alla Sardegna, cui porta in dono uno scudetto e per i quali rinuncia a vagonate di trofei e quattrini. Saluta ad aprile del 1977, a 33 anni, infortunato per l’ennesima volta, con uno scarno comunicato:
“Non me la sento di ingannare il pubblico tornando sul campo in condizioni menomate. Avrei potuto farlo, ma preferisco che ricordino il Riva delle giornate migliori”.
Signori si nasce, diceva qualcuno.

lunedì 4 luglio 2011

Cent’anni (o quasi) di Copa America

E’ nata 44 anni prima del suo corrispettivo europeo, ed ha anticipato di 14 il  primo Campionato del Mondo.
Non ha nulla in comune con la quasi omonima manifestazione velica (quella di Luna Rossa, Cino Ricci & C.), se non la straordinaria longevità.
E’ la “Copa America” ( rigorosamente con una “p” sola), massima rassegna calcistica per nazionali del continente scoperto da Cristoforo Colombo: di quella parte di America che sta dal Canale di Panama in giù, per essere precisi, in barba al nome che vorrebbe abbracciare anche Caraibi, Messico e Nord America.
In effetti la denominazione “Copa America” é relativamente recente (1975), posto che sino ad allora si é parlato più propriamente di “Campeonato Sudamericano de Selecciones”.
Quel che é certo é che si tratta di un unicum del football mondiale: caratterizzatosi per un andamento a dir poco schizofrenico, in ossequio alla seducente quanto contraddittoria regione che rappresenta, dove l’eccesso é la regola e il raziocinio un qualcosa da schivare come la peste.
Si é infatti disputata a cadenza annuale, biennale, triennale e quadriennale: addirittura due volte nel 1959 per poi sparire dai calendari per otto anni dal 1967 al 1975.
Normalmente in una sede unica, con l’Argentina (quella ai nastri di partenza sarà la nona edizione ospitata) quale anfitrione più gettonato. Ma anche senza fissa dimora, con partite di andata e ritorno (1975, 1979, 1983).
Giusto per dare l’idea del caos imperante, basti dire che nel 1987, allo scopo di rimettere un po’ d’ordine, si é deciso di assegnare l’organizzazione del torneo secondo criteri tecnici assai ponderati: l’ordine alfabetico! Per la cronaca, si partì così con l’Argentina, ma già alla lettera B la Bolivia si tirò fuori facendo sciaguratamente saltare il maldestro meccanismo …
Negli ultimi anni ha visto al via rappresentative del Nord e del Centro America (e fin qui …), e nel 1999, incredibile dictu, il Giappone, facoltoso ospite recante in dono sponsor a volontà. Tanto avulso dal contesto quanto gradito, al punto da essere reinvitato per l’imminente Copa America 2011, cui il paese del Sol Levante dovrà rinunciare per problemi organizzativi legati al recente terremoto.
Sorvoliamo per benevolenza verso il lettore sulle variazioni della formula, consistente fino al 1963 in un funzionale girone unico dove tutti incontrano tutti, per poi sbizzarrirsi in gironi, gironcini, ripescaggi vari e partite ad eliminazione diretta, partendo dai 4 partecipanti delle prime edizioni per arrivare ai 12 di oggi.
La Copa America é anche l’unico torneo fra squadre nazionali disputatosi a Guerre Mondiali in corso.
Galeotto fu il centenario dell’indipendenza dell’Argentina, anno 1916. Che per l’occasione invita le rappresentative di  Brasile, Uruguay e Cile per un torneo celebrativo.
Vince l’Uruguay, che rovina la festa ai padroni di casa e si guadagna il diritto di ospitare l’edizione successiva (1917), da lì in avanti sotto l’egida della nascente “Confederacion Sudamericana de Futebol”.
Miglior marcatore l’urugagio Isabelino Gradin, futuro campione sudamericano anche nell’atletica leggera.
Ma soprattutto nero e figlio di schiavi africani: dettaglio per nulla trascurabile ai tempi. Già, perché l’Uruguay é l’unico paese a schierare giocatori di colore, e viene accusato di una sorta di “concorrenza sleale” (nella Celeste c’é un coloured, Juan Delgado).


Isabelino Gradin

Gradin, allora nemmeno ventenne, diventa un caso internazionale e una star allo stesso tempo. “Agile, elegante, alato, elettrico, repentino, delicato, fulminante” lo definisce il poeta futurista Juan Parra del Riego.
Dopo aver assistito al bis dei compagni dalla panchina l’anno seguente, nel 1919 partecipa alla terza edizione, organizzata in Brasile. Dove la questione razziale é una faccenda assai seria che travalica lo sport, e chiama in causa politicanti di ogni ordine e grado.
Sarà il suo canto del cigno: divenuto per sua stessa scelta un giocatore scomodo (aderisce anche a una Federazione uruguaiana “dissidente”), Gradin esce dal giro della nazionale che negli anni ’20 domina il mondo: il cui giocatore più celebrato sarà, come fa presto a girare il vento, la “maravilla negra” Andrade.
La fortissima stigmatizzazione all’uso di calciatori di colore, intanto, non impedisce ai brasiliani di esultare per le gesta di Arthur Friedenreich, di padre tedesco e mamma nera: lui ricco commerciante, lei modesta lavandaia.
Uno che prima di entrare in campo si stira i capelli per farli sembrare meno crespi e nascondere le sue origini meticcie. Uno che in carriera ha segnato circa 1.300 goal, forse più (ma il dibattito é aperto) di un certo Pelé.


Arthur Friedenreich

Quel 29 maggio 1919 a Rio de Janeiro in cui un goal nei supplementari del mulatto Friedenreich dà la prima Copa America al Brasile, é uno spartiacque nella storia del calcio mondiale.
Nella successiva edizione (1921) il Presidente brasiliano Pessoa prende le cose di petto, vietando l’utilizzo di calciatori di colore “per questioni di decoro nazionale”. Ma ormai le prodezze del figlio della lavandaia sono negli occhi di tutti: la strada é segnata, e porterà a Pelé, Garrincha, Gerson, Ronaldo e chi più ne ha più ne metta.
Continuando sulla scia delle edizioni disputate durante o in prossimità delle Guerre Mondiali, quelle del 1941, del 1942 e del 1945 vedono in campo una serie di eccezionali fuoriclasse, dai brasiliani Zizinho e Ademir al carismatico mediano uruguaiano Obdulio Varela, che in epoche diverse  avrebbero fatto parlare di sé in Europa, allora in tutt’altre faccende affaccendata.
Ma é l’Argentina a dettar legge, con quattro successi fra il 1941 e il 1947.
Pontoni, Sastre, Mendez, e soprattutto i componenti della formidabile “Maquina” (la linea d’attacco del River Plate di Buenos Aires):  Pedernera, Munoz, Loustau e su tutti José Manuel Moreno, biscazziere impenitente specializzato in risse da saloon, a detta di Maradona il miglior calciatore argentino di sempre.


José Manuel Moreno
Infine Rinaldo Martino e Mario Boyé, delle cui eccellenti prestazioni fra il 1945 e il 1947 si ricordano qualche anno più tardi Juventus e Genoa.
Sbarcati in Italia nell’estate del 1949, Martino fa giusto in tempo a vincere lo scudetto 1949-50, mentre Boyé detto “El atomico” desta sensazione nella sua brevissima parentesi italiana. Brevissima perché né a Torino né a Genova hanno fatto i conti con le mogli dei suddetti campioni. Le quali, avvinte dalla nostalgia di casa, costringono i rispettivi consorti a una rocambolesca quanto ignominiosa fuga dal Belpaese.
Nel 1947, intanto, si affaccia sulla scena internazionale uno dei cinque più grandi giocatori di sempre, Alfredo Di Stefano. Per la “Saeta Rubia”, già citato in precedenti articoli per l’allergia a manifestazioni per squadre nazionali, sarà l’unico successo senza indosso una maglia di club.
E qui fa capolino la vocazione della “Copa America” a fare eccezione, a far a pugni con la statistica se non addirittura con la logica e i naturali rapporti di forza.
Com’è possibile che il Brasile, quello per intenderci di Pelé, Didì e Zagallo, poi di Rivelino, Jairzinho e Tostao, sia riuscito a conquistare tre Mondiali fra il 1958 e il 1970, e neanche un titolo sudamericano?
E dopo di loro Zico, Falcao, Socrates e Junior. Nada: zeru tituli.
L’astinenza si protrae inspiegabilmente per qualcosa come quarant’anni, dal 1949 al 1989.
A interromperla, ironia della sorte, un Brasile fra i più contestati di sempre. Quello ultradifensivista di Sebastiao Lazaroni (5-difensori-5, una sorta di sacrilegio), futuro allenatore per nulla apprezzato della Fiorentina, nonché zimbello di “Mai dire goal” per via di un eloquio incomprensibile ai più.
Due più due raramente fa quattro, da queste parti. L’iconografia classica vuole il calciatore brasiliano elegante e aggraziato, e quello argentino, soprattutto in tema di difensori, tignoso e violento?
Beh, chiedete a José Salomon, ruvido terzino argentino vincitore nel 1941 e nel 1945. La sua carriera internazionale si chiude nell’edizione del 1946, a causa di un intervento assassino del sontuoso attaccante brasileiro Chico, che gli fracassa tibia e perone.
E allora, quali le ragioni di una così netta divaricazione dal trend del calcio mondiale?
Il fatto è che la Copa America é un mondo a sé.
Va respirata, va sentita sulla pelle: una pelle che ci immaginiamo imperlata e sudaticcia come in quei romanzi di Garcia Marquez pieni di magia e di passioni ancestrali: e così é certamente stato fino al 1967, quando si é disputata in quelli che per noi sono i mesi invernali, ma che per quelli che stanno nell’emisfero australe significano estate, ed estate torrida.
Fino al 1975 nessuna squadra vincitrice ha mai annoverato fra le proprie fila un giocatore militante in squadre non sudamericane.
C’é stata, per decenni, una scissione quasi bipolare fra la chiassosa fama acquisita da molti pittoreschi eroi idolatrati in Sudamerica, e l’eco attutita, talvolta deformata, che ne giungeva nella lontana e austera Europa.
I massimi cannonieri della rassegna sono il già citato Zizinho e l’argentino Norberto Mendez (17 goal). Vere proprie leggende oltre oceano: note solo ai calciofili più dotti dalle nostre parti.
L’uruguaiano Hector Scarone, unico ad aver vinto la Copa America per quattro volte (1917, 1923, 1924, 1926), tentò l’avventura europea con notevole anticipo sui tempi. Bilancio? Beh, fate voi: 18 partite e 9 goal col Barcellona, 14 partite e 7 reti con l’Inter, 54 partite in due anni con 13 reti al Palermo. Bazzecole, per un autentico monumento, che ha vinto pure due Olimpiadi e il primo Campionato del Mondo della storia.
Poi il calcio industrializzato ha lentamente appiattito tutto: dal 1967 si è traslocato in estate (nella nostra estate), e ciò ha evitato che la massima rassegna sudamericana cascasse nel bel mezzo dei campionati europei.
Ma bisogna aspettare vent’anni per assistere a un massiccio contro-esodo di campioni sudamericani “emigrati”, tornati in patria a “miracol mostrare”.
Nel 1987 l’Argentina Campione del Mondo cala il pezzo da novanta: un Diego Armando Maradona in grande spolvero. Il Brasile risponde con il suo futuro compagno d’attacco al Napoli, il temibile Careca.
Risultato: il Brasile esce nel girone eliminatorio, dopo aver perso 4 a 0 dal Cile. L’Argentina viene eliminata in semifinale dall’Uruguay, che vincerà il torneo. Capocannoniere? Né Maradona né Careca, ma tale Arnoldo Iguaran, colombiano.
Il fatto é che si può essere dei campioni col portafoglio rigonfio di sterline, lire o pesetas, ma la colonna sonora non la si sceglie.
E il ritmo da quelle parti é sempre quello ammiccante dei tango di Astor Piazzolla, talvolta quello felpato della bossanova di Vinicius De Moraes. Ed é un ritmo che più volte respinge i propri figli andati a far fortuna altrove, sintonizzati ormai su frequenze diverse da quelle assimilate in gioventù.
Chi ha raggiunto soldi e gloria nel Vecchio Continente, difficilmente conserva lo spirito per lottare col coltello fra i denti. E se ne ha forza e intenzione (fare la Copa America significa, in soldoni, dimezzarsi le vacanze), deve pur sempre sfidare la ritrosia del proprio club di appartenenza, preoccupato (a ragione) che il proprio gioiello ritorni ammaccato da una contesa che é tutto tranne che una bonaria rimpatriata.
E’ tutto il calcio sudamericano, a ben vedere, ad aver leggi tutti sue.
Il Sudamerica pallonaro é un paese per vecchi e per adolescenti. Un cimitero degli elefanti per campioni scaricati dal calcio che conta, o una palestra formativa per giovani virgulti di belle speranze. La generazione di mezzo non esiste: se non sotto forma di emeriti brocchi che non han trovato ingaggio nemmeno nel più scalcinato dei campionati europei.
A volte, é semplicemente un paese per matti: per gente naif dalle indiscutibili qualità pedatorie, ma dalla testa svitata e da una palese idiosincrasia verso tutti quelli aspetti del gioco che concernono la tattica e la corsa.
Reso il dovuto omaggio al genio brasiliano Edmundo detto “o’ animal”, va detto che si potrebbe riempire un intero elenco telefonico con i nomi dei giocatori soprannominati, mai a sproposito, “El loco” (il matto).
Hugo Gatti, portiere argentino anni ‘70, soffriva tremendamente la solitudine e gli interminabili momenti morti che il ruolo comporta.
Così sovente si lanciava, con la lunga zazzera tenuta a bada da una bandana variopinta, in uscite spericolate a centrocampo. Un paio di volte si è pure arrampicato sulla traversa e vi si é seduto sopra: così, per vedere l’effetto che fa.
Un giorno, in Argentina, si ritrova davanti un piccoletto grassoccio di neanche vent’anni. Lo apostrofa: “Nanerottolo, sei troppo grasso per farmi goal”. Il ragazzino, indispettito, gliene fa quattro: si chiamava Diego Armando Maradona …
Martin Palermo, appena ritiratosi dal calcio giocato, i capelli preferiva tingerseli di biondo platino.
Centravanti argentino fra i più prolifici degli ultimi vent’anni, entra nella leggenda durante la Copa America 1999. Quando contro la Colombia sbaglia 3 rigori nel medesimo match, record tuttora imbattuto. Pazzo lui, certo, ma che dire del suo allenatore che per tre volte lo lascia andare sul dischetto senza batter ciglio?
Recente new entry, infine, l’uruguagio Sebastian Abreu. Che ai Mondiali di Sud Africa 2010 segna il rigore decisivo contro il Ghana (che dà alla sua Nazionale una semifinale attesa 40 anni) facendo “il cucchiaio”, come uno sbruffoncello qualsiasi in un torneo fra bar.
Tutto ciò per dire che non c’é da stupirsi granché se i sopraccitati “locos” hanno poi raccolto ben poche soddisfazioni nel cartesiano calcio europeo, allorquando abbiano deciso di cimentarvisi.
Il calcio sudamericano é questo, prendere o lasciare: la sua massima rassegna internazionale non ha fatto altro che andare di conseguenza.
Per l’Europa e per i suoi mercanti di carne umana calciante, tuttavia, é sempre parso più fruttuoso reperire la materia prima in giovane età, ritenendola più facilmente plasmabile.
La Fiera espositiva per campioni in erba, a ben vedere, apre i battenti già nel 1921, quando rivela Julio Libonatti, capocannoniere e vincitore con l’Argentina. Acquistato dal Torino, farà sfracelli nel nostro campionato e, stanti le inequivocabili origini, sarà il primo oriundo della storia del calcio italiano.
Ma é l’edizione del 1957 ad assurgere ad autentico paradigma di questo rapporto di osmosi fra calcio sudamericano ed europeo.
 E’ infatti la Copa America de “Los Carasucias” (“gli angeli dalla faccia sporca”), la formidabile prima linea argentina composta da Omar Sivori, Antonio Valentin Angelillo e Humberto Maschio.
Sivori va alla Juventus, dove diventerà ben presto una star, Maschio finisce al Bologna, ma vivrà fra alti e bassi la sua carriera italiana, osteggiato in particolare da Helenio Herrera nella sua parentesi interista.
Angelillo, invece, ballerà una sola estate (33 goal all’Inter nel campionato ‘58-’59) prima di piombare in una precoce mediocrità e trovare l’amore sotto forma di una velina ante-litteram.
Dagli anni ’90 in poi il traffico unidirezionale via Atlantico si fa sempre più congestionato.
L’edizione del 1991 incorona un giovanissimo bomber argentino di nome Gabriel Omar Batistuta.
La Fiorentina targata Cecchi Gori acquista lui e il suo gemello al Boca Juniors, il funambolo Diego Latorre, atteso almeno quanto il futuro Batigol ma lasciato ancora un anno in Sudamerica a maturare.
Batistuta fatica parecchio nella prima stagione, per poi esplodere nella seconda (16 goal), che tuttavia porta alla retrocessione dei Viola. Quanto a Latorre, approdato a Firenze nell’estate ‘92, gioca due partite e sparisce mestamente dalla circolazione.
La Copa America 1995 vale un biglietto di sola andata per l’Europa per grandissimo Roberto Carlos, ma anche per il carneade uruguagio Otero. Quella del 1999 regala l’occasione della vita alla promessa mai mantenuta Santa Cruz, quella del 2001 alla bufala interista Sorondo. A dimostrazione che i calciatori sudamericani sono come le scatole di cioccolatini per Forrest Gump: non sai mai quello che ci trovi dentro.
La Copa America sa anche premiare a volte realtà virtuose che magari in un proscenio mondiale non verrebbero valorizzate: schiacciate, com’é logico che sia, dalla solite super-potenze.
Fra i soliti vasi di ferro si fa largo nel 1975 il Perù del grande fuoriclasse  Teofilo Cubillas, ma anche del minuscolo difensore Hector Chumpitaz detto “El granitico”, dell’ala Juan Carlos Oblitas e del giovane Geronimo Barbadillo, poi protagonista in Italia con Avellino e Udinese.
Presentatisi come campioni sudamericani in carica ai Mondiali argentini del 1978, i discendenti dei vecchi Incas chiudono ingloriosamente la rassegna iridata con un umiliante 6-0 (la famigerata “marmelada peruana”) contro i padroni di casa: risultato palesemente pilotato per agevolare l’accesso alla finale dell’Argentina.
L’edizione del 1997 porta alla ribalta la Bolivia padrone di casa, trascinata dalle prodezze di Erwin Sanchez, detto “Platini” (con notevole sforzo d’immaginazione…), e da condizioni climatiche proibitive, leggi 3.000 e passa metri sul livello del mare, per gran parte degli avversari.
Nel 2001 trionfa la Colombia di Francisco Maturana, un “Arrigo Sacchi delle Ande” che sul finire degli anni ‘80 contendeva al santone romagnolo la palma di profeta del calcio del futuro. Fra i migliori, i difensori centrali Ivan Ramiro Cordoba e Mario Yepes, ben noti ai tifosi milanesi di entrambe le sponde.
Sui gradini più bassi del podio due paesi “intrusi”: il Messico e il piccolo l’Honduras, che elimina, udite udite, il Brasile nei quarti di finale.
Da allora la Copa America pare aver messo la testa a posto. Due vittorie del Brasile (2004 e 2007), entrambe in finale con l’Argentina, danno l’idea di una certa corrispondenza agli effettivi valori in campo.
Nel 2004, per la prima volta, la maggioranza dei vincitori non milita in campionati sudamericani (10 “europei” e un “giapponese” fra i 22 brasiliani in rosa). Tre anni dopo, é l’ultima edizione disputata, la sproporzione  (19 “emigrati” su 22) é inequivocabile.
L’europeizzazione é imponente e pare inarrestabile. Nell’era del calcio globalizzato, la via sudamericana al football pare una pia illusione: non nell’accezione di solo una ventina d’anni orsono, almeno.
La tara del valore delle squadre si fa su quanti giocatori della Premier League inglese ha la squadra X e quanti della Liga spagnola ha la squadra Y. Le possibilità che qualche talento formidabile sia sfuggito ai radar dei grandi club europei sono praticamente nulle.
Detto questo, gli amanti dei coup de theatre non disperino.
Solo un anno e mezzo fa l’Argentina, nonostante il Pallone d’Oro Messi in campo e Maradona in panchina (ma qui sul “nonostante” si potrebbe obiettare ...) ha perso 6 a 1 dalla Bolivia rischiando di non qualificarsi per i Mondiali: traguardo raggiunto invece con nonchance dai piccoli Paraguay e Cile.
Intanto, il Messico, fra le nazioni più prolifiche di talenti negli ultimi anni, si presenterà con una squadra decimata e riassemblata alla bell’e meglio: perché otto giocatori sono stati beccati in flagranza di “bunga bunga” nell’ hotel che ospitava la rappresentativa centroamericana.
E allora vien da pensare che tutto sia ancora possibile. Perché oggi come quasi cent’anni fa vale lo stesso detto: mai dare nulla per scontato, alla Copa America.

lunedì 18 aprile 2011

150 anni di Unità d'Italia ... e 102 anni di Giro

Si è scritto molto circa la funzione unificatrice della Prima Guerra Mondiale, nel lungo e tormentato processo di formazione dello Stato italiano.
Una sorta di corso accelerato di vita in comune per un popolo che, nei suoi primi cinquant’anni e più, aveva vissuto in un’unità più che altro virtuale, in singoli microcosmi che perseveravano nel germogliare in vasi non comunicanti.
Questione di distanze geografiche, di contesti socio-economici eterogenei, di una lingua italiana ben lungi dall’essere di uso generalizzato.
I soldati Gassman e Sordi della “Grande Guerra” di Monicelli, l’uno milanese (leghista ante-litteram?) l’altro borgataro romano, rappresentano mirabilmente quella prima, sconvolgente, presa di contatto fra compatrioti che mai altrimenti avrebbero avuto occasione né motivo di incontrarsi.
Ebbene: quando, il 28 giugno 1914, l’attentato all’erede al trono d’Asburgo dà, di fatto, il via alle ostilità, il “Giro ciclistico d’Italia” ha appena portato a termine la sua sesta edizione, ed ha già costruito una parte considerevole della sua epopea.
Accostamento ardito, non c’é dubbio. Da una parte uno dei più sanguinosi conflitti bellici, tale da stravolgere  gli assetti geopolitici del Vecchio Continente e non solo; dall’altra un semplice avvenimento sportivo, sia pur particolarmente popolare.
Siamo peraltro lontani anni luce anche dalla dimensione mediaticamente imponente che certi avvenimenti sportivi hanno raggiunto nel tempo, al punto da destare l’interesse della politica e delle connesse  esigenze propagandistiche.
Le corse in bicicletta del primo Novecento sono infatti odissee senza certezza di ritorno a casa, con organizzazioni approssimative e giusto un manipolo di intraprendenti giornalisti al seguito.
I ciclisti? Spiantati avventurieri, soldati di ventura. Loschi cacciatori di taglie (3000 lire al vincitore del Giro ti sistemano per la vita) che si sfidano, senza esclusione di colpi, su strade senza legge: dissestate, sudice e tenebrose, giacché correre in notturna è la norma.
Poco più che mulattiere, ampiamente sufficienti del resto in un Paese in cui la mobilità é ridotta ai minimi termini. Niente camionisti, pendolari, agenti di commercio e via dicendo:  al massimo contadini che fanno avanti e indietro dal borgo natio alla città più vicina.
Ed ecco allora che questi cavalieri su due ruote sono fra i primi eroi popolari ad “accorciare” idealmente questa nostra patria che assomiglia ancora a una Torre di Babele, dilatata nella percezione comune proprio da una rete stradale deficitaria e nemmeno lontanamente paragonabile a quella odierna.
Lungo gli infiniti e sfiancanti percorsi di gara capita che si fermino nelle osterie per bere qualcosa o espletare bisogni impellenti. Dapprima si esprimono, fra di loro o con i commensali, ciascuno nel loro arcano idioma; salvo poi arrendersi all’evidenza, ed andare alla ricerca di locuzioni condivise e comprensibili dagli astanti.
E’ lo stesso sforzo compiuto dai soldati che, fianco a fianco nelle trincee del Cadore, ingannano la paura raccontandosi delle propria terra d’origine. Quasi certamente sconosciuta al vicino di sventura: il quale, tuttavia, comincia empiricamente a costruirsi nella testa un’approssimativa geografia dello Stivale.
E’ per certi versi simbolico che tante di quelle cime teatro di epiche battaglie, diventeranno protagoniste nel grande romanzo del Giro.
Tre Cime di Lavaredo, Passo dello Stelvio, Monte Grappa, Passo Falzarego, Altopiano di Asiago, Passo del Tonale.
Luoghi di sacrari, di ossari, di cunicoli e fortezze austro-ungariche. E di grandi imprese ciclistiche.
Il primo Giro d’Italia vede la luce il 13 maggio 1909. Si parte all’alba da Milano, Piazzale Loreto: anche qui, un luogo destinato a lasciare un segno indelebile nella storia patria.
Si punta Bologna, poi di lì a Chieti. Il 18 si é già a Napoli: più veloci di Garibaldi e Nino Bixio.
Ma é un’anomalia: perché queste Spedizioni dei Mille (erano 127 nel 1909, ma il numero lieviterà con gli anni) andranno quasi sempre in direzione inversa rispetto agli uomini in rosso capitanati dall’Eroe dei due Mondi.
Da Sud verso Nord: dove stanno appunto le grandi montagne (che peraltro verranno affrontate solo a partire dagli anni ’30), e dove quindi l’evento squisitamente agonistico ha necessariamente il suo apice.
Il ciclismo dei primordi è, detto per inciso, prima di tutto uno straordinario veicolo pubblicitario per le ditte del settore. C’è, infatti, una certa avversione per questo curioso mezzo di locomozione che terrorizza i pedoni e suscita curiosità pruriginose sulla postura in sella: al punto che ne viene vietato l’uso, per questione di decoro, a donne e sacerdoti.
Si fa largo invece l’idea di un utilizzo in ottica militare.  “Ciclisti siamo … andiamo in fretta … che i primi siamo … sul campo dell’onor!”, recita enfaticamente l’inno ufficiale del battaglione dei “Bersaglieri ciclisti”.
E così, quello del 1912 sarà l’unico Giro d’Italia disputato a squadre. Vincerà l’Atala sulla Peugeot, ma sarà la Bianchi a vincere l’appalto per la Grande Guerra, fornendo all’esercito qualcosa come 60.000 biciclette.

Luigi Ganna

L’avventurosa vittoria di Calzolari nel 1914 chiude l’epoca del ciclismo pionieristico, di Luigi Ganna vincitore del primo Giro al grido “me brusa il cul” e di Giovanni Gerbi  battezzato “diavolo rosso” da un prete perché un giorno irrompe a tutta velocità, con un maglione rosso fiammante, nel bel mezzo di una processione religiosa.
La “corsa rosa” riparte trionfalmente nel 1919, per incoronare Costante Girardengo, il primo grande idolo delle folle.
Il Fascismo, senza dubbio lungimirante nella subdola arte della creazione del consenso, cavalcherà l’onda di questo straordinario evento che per una manciata di settimane fa sentire gli italiani tutti attori di un medesimo spettacolo a cielo aperto.
Gli ultimi colpi di coda di Girardengo, Alfredo Binda pagato per non correre un Giro che con la sua superiorità avrebbe reso di una noia mortale. Tano Belloni “l’eterno secondo”, Learco Guerra “la locomotiva umana”, Gino Bartali e i primi vagiti della rivalità con Coppi.


Poi la Seconda Guerra Mondiale: Bartali staffetta partigiana e Coppi prigioniero in Africa sono la fotografia dell’indissolubile simbiosi fra l’Italia e i suoi campioni del pedale.
Quando tutto finisce, gli italiani che rialzano faticosamente il capo hanno fretta di tornare alla normalità: e normalità vuol dire Giro d’Italia.
Ma quello del 1946 é un azzardo: nessuno può ancora garantire le condizioni logistiche e di sicurezza necessarie.
Gli sponsor scarseggiano, e così fra le squadre al via ci sono il “Fronte della gioventù”, già organizzazione partigiana di ispirazione comunista, e il “Centro Sportivo Italiano”, di matrice cattolica.
La Rovigo-Trieste é sospesa a Pieris per un agguato ordito da sostenitori dell’annessione del capoluogo giuliano, allora sotto il controllo degli Alleati, alla Yugoslavia.
Lanci di pietre e colpi di pistola consigliano a Bartali e soci di far dietrofront.  Ma alcuni, convinti dai corridori della “Wilier Triestina”, decidono testardamente di proseguire e, scortati dalle camionette anglo-americane, di entrare in città: dove sarà proprio il triestino Giordano Cottur a tagliare per primo il traguardo, fra un tripudio di bandiere tricolori.
Di lì in avanti l’Italia e il suo Giro non si lasceranno più. Si daranno appuntamento ogni anno, all’esplodere della primavera: più o meno alla stessa ora, più o meno negli stessi posti, per raccontarsi cosa c’é di nuovo nella Penisola.
Se un cineasta avesse potuto piazzare una telecamera su un tornante, che so, del Pordoi, avrebbe potuto scorgere, anno dopo anno, l’evolversi dell’abbigliamento, delle acconciature, dell’espressività e del linguaggio di un popolo intero.
Il sogno di una rinascita nel Dopoguerra, infatti, passa ancora per quelle strade sventrate dai bombardamenti, percorse a tutta velocità dai due rivali per eccellenza. Il cattolico Bartali battezzato “il Pio”, e il laico Coppi, che diventa comunista di riflesso: quasi per esigenze di copione, perché la favola fila meglio così.
L’epopea del Grande Torino rimane chiusa entro le mura di uno Stadio, l’angusto Filadelfia, che può ospitare solo pochi fortunati. Per gli altri, solo mozziconi di partita nei cinegiornali o foto sbiadite di Valentino Mazzola sulla Gazzetta.
Ma il Giro ti passa sotto casa, non chiede il biglietto a nessuno: solo la pazienza di aspettare, come direbbe Paolo Conte, “in cima a un paracarro”.


"Ladri di Biciclette", 1948

E’ l’età dell’oro: una quindicina d’anni in cui una generazione di sontuosi fuoriclasse si incastra magicamente con una centralità mai ripetuta della bicicletta nella vita della gente comune, tanto da assurgere ad autentica icona del cinema neorealista. De Sica, in particolare, ne fa ampio uso, dallo struggente “Ladri di biciclette” dove la bici é essenziale strumento di sostentamento, alla più scanzonata saga del maresciallo Carotenuto di “Pane, amore e fantasia” che scarrozza Marisa Merlini per le strade della Ciociaria.
Dietro ai due Campionissimi, scalpitano Fiorenzo Magni (il “terzo incomodo per antonomasia”),  Gastone Nencini, Ercole Baldini. E gli stranieri.
L’etereo elvetico Hugo Koblet, armonioso come un Dio greco e civettuolo come un divo hollywoodiano paparazzato per le vie di Roma,  é il primo non italiano a vincere il Giro, nel 1950: lo seguono il connazionale Carlo Clerici (di padre italiano) nel 1954 e il lussemburghese Charly Gaul nel 1956 e nel 1959.
E’ la dimostrazione di un’accresciuta reputazione internazionale del Giro, ormai ai livelli del Tour de France. Non certo il segnale di una minor competitività dei nostri corridori: che infatti restituiscono il favore con Bartali (1948), Coppi (1949 e 1952) e Nencini (1960) sulle strade di Francia, e pure alla Vuelta Espana con Angelo Conterno nel 1956.
Fausto Coppi muore all’alba del 1960. Lo stesso anno in cui, con le Olimpiadi di Roma, la nuova Italia, figlia del boom economico, si mostra orgogliosa al mondo.
Si entra in una nuova era.
I corridori vestono maglie variopinte, tappezzate di sponsor, fieri portabandiera di quella media imprenditoria in espansione, che sarà l’architrave del “miracolo italiano”.
Salami (Molteni), Liquori (Carpano), lacche per capelli (Tricofilina), macchine da caffè (Faema), cucine (Salvarani), gelati (Sanson): niente a che vedere con la Juventus targata FIAT, l’Inter del petroliere Moratti o il Napoli dell’armatore Achille Lauro.
Le strade, per la gioia dei concorrenti, sono ricoperte magicamente da colate di asfalto: tutte, anche le salite più arcigne, che mostrano ora un volto più umano. E i cavalieri delle due ruote non sono più eroi semi-muti che si limitano a “sono contento di essere arrivato uno” (sempre Luigi Ganna), ma sono chiamati a lanciarsi nel loro italiano spesso ancora approssimativo e vernacolare nei “Processi alla tappa” di Sergio Zavoli.
Capita così che Lucillo Lievore, misconosciuto gregario veneto, venga pedinato con impenitente voyeurismo: pedalata dopo pedalata, gemito dopo gemito, imprecazione dopo imprecazione, nella sua commovente rincorsa ad un misero secondo posto (sic!) di tappa.


E capita pure che l’impetuoso abruzzese Vito Taccone (uno che oggi farebbe la fortuna di qualsiasi reality) diventi un protagonista assoluto: con la lingua prima ancora che con le gambe. Senza salire mai sul podio finale (era peraltro un ottimo scalatore) ma contribuendo in modo decisivo a spostare la geografia della passione per il ciclismo verso Sud.
Ma quella degli anni ‘60 é un’Italia che viaggia ormai su quattro ruote. La cara vecchia bici diventa, per certi versi, un retaggio di un passato di stenti che tutto sommato si può anche mandare in soffitta.
In un paese in crescente sviluppo industriale, i milioni di operai si identificano nelle imprese della squadre calcistiche metropolitane. Gli immigrati dal Meridione trovano nel tifo per la Juventus, di proprietà di colui che per molti di loro é il datore di lavoro, una prima forma di integrazione sociale.
Il ciclismo resta uno sport legato indissolubilmente alla provincia, alle radici contadine del paese: così gradualmente inizia a cedere il passo al football negli interessi degli sportivi.
Negli anni ’70, ’8o e ’90, mezze figure e meteore fanno spesso capolino sul gradino più alto del podio.
Poco aggiungono alla gloriosa bacheca della “corsa rosa” i nomi di Gosta Pettersson (1971), Fausto Bertoglio (1975), Michel Pollentier (1977), Johan De Muynck (1978), Andy Hampsten (1988) e Eugeni Berzin (1994).
I duelli fra Merckx e Gimondi prima, fra Moser e Saronni poi, sono degni epigoni di quelli del ciclismo eroico. Ma non sono certo folle oceaniche quelle che si dividono, nei primi anni ’90, fra il tifo per Gianni Bugno e quello per Claudio Chiappucci.
Il ciclismo rischia di diventare “uno sport per vecchi”, che sopravvive grazie ai ricordi di chi ha i capelli bianchi: eccezion fatta per certe “enclavi” storiche, dal Veneto alle province di Brescia e Bergamo, dove la passione resta fortemente radicata nel territorio.
Solo l’accresciuta sensibilità per le tematiche ecologiste, la valorizzazione soprattutto in ambito urbano della bici come mezzo di locomozione non inquinante, riporterà il vecchio velocipede in auge: ma di questo il ciclismo agonistico non coglierà che frutti parziali.
L’ultimo grande sussulto è legato alla controversa parabola di Marco Pantani: ai suoi scatti fulminei e rabbiosi, ai suoi immaginifici attacchi da Don Chisciotte a cavalcioni di un destriero di metallo.
Poi, nel 1998, esplode la bufera doping, che travolge tutto.
Alla sua morte, il “pirata” di Cesenatico viene repentinamente introdotto nell’Olimpo dei grandi del passato: ma si ha quasi la sensazione che quel giorno a Madonna di Campiglio in cui Pantani viene trovato positivo, il ciclismo si sia giocato il presente e forse anche il futuro.


Passo del Mortirolo, 1994: nasce la "Pantanimania"

Il rispetto, che sconfina nella venerazione, per i tempi andati (non riscontrabile peraltro in nessun altro sport) , se da un lato fa onore a un mondo che coltiva la memoria delle proprie origini, dall’altro sa talvolta di un ambiguo tentativo di vivere di rendita, di un tirare a campare riempiendo i vuoti di palinsesto e di emozioni con suggestivi “amarcord” della gloria che fu.
I campioni di oggi sono gelide macchine da prestazione. Preparano il Giro o il Tour in altura, lontano da occhi indiscreti. Testano l’aerodinamicità nelle gallerie del vento, neanche fossero astronauti in missione su Marte. E corrono come saette un paio di mesi l’anno, per poi sparire nel nulla.
Da un po’ di tempo, il Giro ha riscoperto le “strade bianche”, lo sterrato. Una sciccheria un po’ retrò, forse una mossa della disperazione: perché sin troppi Carneadi ormai sono in grado di spianare  quelle salite dai nomi evocativi e altisonanti, dove un tempo Binda rifilava delle mezz’ore ai rivali.
C’è, infatti, una toponomastica, devota e solenne, totalmente incomprensibile ai profani, che ridisegna il territorio italico disseminandolo di luoghi sacri, resi leggendari dalle gesta di questo o quel campione, da una tormenta che ha colpito il gruppo quel tal anno o dalla fuga non riuscita di quel tal corridore che … “il nome ce l’ho sulla punta della lingua …”.
Una realtà parallela, avulsa da caselli autostradali, fermate della metropolitana e raccordi anulari, dove un sentiero di montagna, usato da contadini valtellinesi per portare il bestiame al pascolo, può diventare un tempio pagano, “il Mortirolo”.
E chi ha visto “la carovana rosa” transitare sulla Portella Femmina Morta, difficilmente scorda che le salite, in Sicilia, si chiamano “portelle”, più facilmente che passi o colli; mentre se si é in Friuli, non è improbabile finire alle pendici di una “sella”, e andando verso ovest, di una ”forcola” o di una “forcella”.
Ecco: il “popolo rosa” che riempie quelle strade di provincia altrimenti anonime, che bivacca sulle rampe del Gavia armato di cibarie e bandieroni, non ha mai voltato le spalle.
Un idillio acritico come molti grandi amori, che rifugge i retropensieri e tuttavia (o forse proprio per questo) resiste al tempo e non mostra cedimenti.
Il Giro d’Italia del 1961, centesimo anniversario dell’Unità d’Italia, partì da Torino. Quello dei Cinquecento anni dalla scoperta dell’America (1992) da Genova. Quello del Giubileo 2000 da Piazza San Pietro. Quello dell’adozione dell’Euro (2002) dall’Olanda. Quello dei duecento anni dalla nascita di Garibaldi (2007), da Caprera.
La gente del Giro non teme la retorica e nemmeno la pacchianeria: non ha pudore di manifestare i propri sentimenti, si nutre di un entusiasmo senza malizia.
E’ un miracolo che si riproduce a scadenza annuale, come la liquefazione del sangue di San Gennaro. Sarà l’illusione di replicare le emozioni in bianco e nero degli anni del ciclismo eroico, o la fame di eventi, di riti collettivi: forse solo la speranza di rivedersi la sera, inquadrato dalla TV.
Il segreto di questo successo é in fondo il medesimo delle innumerevoli sagre di paese di cui è tappezzata la Penisola: divertimento genuino a prezzi modici, odore acre di spiedini e nostalgia per un’Italia  un po’ casereccia.
Pochi anni fa un tizio venne piantato dalla moglie perché un’impertinente telecamera  al seguito della corsa, lo riprese in diretta mentre amoreggiava con l’amante, su una spiaggia adiacente al traguardo. Sembra la versione da fotoromanzo della canzone di De Gregori, quella del bandito arrestato mentre assisteva alla gara del suo compaesano Girardengo.
Non si può mancare, quando passa il Giro. E’ come se il Papa fosse in visita pastorale nella tua città: bisogna esserci, anche se non si é credenti.
Ed esserci con animo sereno e festoso. Perché non é, si badi bene, come nel calcio: qui non si insulta, non si fischia, non si sfotte. Questa non é una zona franca dove smettere i panni del padre di famiglia per trasformarsi in ultras indemoniati.
Si applaude tutti, dal primo all’ultimo. Chi va veramente piano, ma merita comunque rispetto. Chi va il giusto, e si guadagna ammirazione e gloria. E chi va sin troppo forte, e magari la passa liscia perché la voglia di non rovinare la festa  viene, troppo spesso, prima di tutto.
Così è, se vi pare, l’Italia del Giro. Così sarà, a maggior ragione, il Giro del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.