E’ nata 44 anni prima del suo corrispettivo europeo, ed ha anticipato di 14 il primo Campionato del Mondo.
Non ha nulla in comune con la quasi omonima manifestazione velica (quella di Luna Rossa, Cino Ricci & C.), se non la straordinaria longevità.
E’ la “Copa America” ( rigorosamente con una “p” sola), massima rassegna calcistica per nazionali del continente scoperto da Cristoforo Colombo: di quella parte di America che sta dal Canale di Panama in giù, per essere precisi, in barba al nome che vorrebbe abbracciare anche Caraibi, Messico e Nord America.
In effetti la denominazione “Copa America” é relativamente recente (1975), posto che sino ad allora si é parlato più propriamente di “Campeonato Sudamericano de Selecciones”.
Quel che é certo é che si tratta di un unicum del football mondiale: caratterizzatosi per un andamento a dir poco schizofrenico, in ossequio alla seducente quanto contraddittoria regione che rappresenta, dove l’eccesso é la regola e il raziocinio un qualcosa da schivare come la peste.
Si é infatti disputata a cadenza annuale, biennale, triennale e quadriennale: addirittura due volte nel 1959 per poi sparire dai calendari per otto anni dal 1967 al 1975.
Normalmente in una sede unica, con l’Argentina (quella ai nastri di partenza sarà la nona edizione ospitata) quale anfitrione più gettonato. Ma anche senza fissa dimora, con partite di andata e ritorno (1975, 1979, 1983).
Giusto per dare l’idea del caos imperante, basti dire che nel 1987, allo scopo di rimettere un po’ d’ordine, si é deciso di assegnare l’organizzazione del torneo secondo criteri tecnici assai ponderati: l’ordine alfabetico! Per la cronaca, si partì così con l’Argentina, ma già alla lettera B la Bolivia si tirò fuori facendo sciaguratamente saltare il maldestro meccanismo …
Negli ultimi anni ha visto al via rappresentative del Nord e del Centro America (e fin qui …), e nel 1999, incredibile dictu, il Giappone, facoltoso ospite recante in dono sponsor a volontà. Tanto avulso dal contesto quanto gradito, al punto da essere reinvitato per l’imminente Copa America 2011, cui il paese del Sol Levante dovrà rinunciare per problemi organizzativi legati al recente terremoto.
Sorvoliamo per benevolenza verso il lettore sulle variazioni della formula, consistente fino al 1963 in un funzionale girone unico dove tutti incontrano tutti, per poi sbizzarrirsi in gironi, gironcini, ripescaggi vari e partite ad eliminazione diretta, partendo dai 4 partecipanti delle prime edizioni per arrivare ai 12 di oggi.
Galeotto fu il centenario dell’indipendenza dell’Argentina, anno 1916. Che per l’occasione invita le rappresentative di Brasile, Uruguay e Cile per un torneo celebrativo.
Vince l’Uruguay, che rovina la festa ai padroni di casa e si guadagna il diritto di ospitare l’edizione successiva (1917), da lì in avanti sotto l’egida della nascente “Confederacion Sudamericana de Futebol”.
Miglior marcatore l’urugagio Isabelino Gradin, futuro campione sudamericano anche nell’atletica leggera.
Ma soprattutto nero e figlio di schiavi africani: dettaglio per nulla trascurabile ai tempi. Già, perché l’Uruguay é l’unico paese a schierare giocatori di colore, e viene accusato di una sorta di “concorrenza sleale” (nella Celeste c’é un coloured, Juan Delgado).
Isabelino Gradin |
Gradin, allora nemmeno ventenne, diventa un caso internazionale e una star allo stesso tempo. “Agile, elegante, alato, elettrico, repentino, delicato, fulminante” lo definisce il poeta futurista Juan Parra del Riego.
Dopo aver assistito al bis dei compagni dalla panchina l’anno seguente, nel 1919 partecipa alla terza edizione, organizzata in Brasile. Dove la questione razziale é una faccenda assai seria che travalica lo sport, e chiama in causa politicanti di ogni ordine e grado.
Sarà il suo canto del cigno: divenuto per sua stessa scelta un giocatore scomodo (aderisce anche a una Federazione uruguaiana “dissidente”), Gradin esce dal giro della nazionale che negli anni ’20 domina il mondo: il cui giocatore più celebrato sarà, come fa presto a girare il vento, la “maravilla negra” Andrade.
La fortissima stigmatizzazione all’uso di calciatori di colore, intanto, non impedisce ai brasiliani di esultare per le gesta di Arthur Friedenreich, di padre tedesco e mamma nera: lui ricco commerciante, lei modesta lavandaia.
Uno che prima di entrare in campo si stira i capelli per farli sembrare meno crespi e nascondere le sue origini meticcie. Uno che in carriera ha segnato circa 1.300 goal, forse più (ma il dibattito é aperto) di un certo Pelé.
Arthur Friedenreich |
Quel 29 maggio 1919 a Rio de Janeiro in cui un goal nei supplementari del mulatto Friedenreich dà la prima Copa America al Brasile, é uno spartiacque nella storia del calcio mondiale.
Nella successiva edizione (1921) il Presidente brasiliano Pessoa prende le cose di petto, vietando l’utilizzo di calciatori di colore “per questioni di decoro nazionale”. Ma ormai le prodezze del figlio della lavandaia sono negli occhi di tutti: la strada é segnata, e porterà a Pelé, Garrincha, Gerson, Ronaldo e chi più ne ha più ne metta.
Continuando sulla scia delle edizioni disputate durante o in prossimità delle Guerre Mondiali, quelle del 1941, del 1942 e del 1945 vedono in campo una serie di eccezionali fuoriclasse, dai brasiliani Zizinho e Ademir al carismatico mediano uruguaiano Obdulio Varela, che in epoche diverse avrebbero fatto parlare di sé in Europa, allora in tutt’altre faccende affaccendata.
Ma é l’Argentina a dettar legge, con quattro successi fra il 1941 e il 1947.
Pontoni, Sastre, Mendez, e soprattutto i componenti della formidabile “Maquina” (la linea d’attacco del River Plate di Buenos Aires): Pedernera, Munoz, Loustau e su tutti José Manuel Moreno, biscazziere impenitente specializzato in risse da saloon, a detta di Maradona il miglior calciatore argentino di sempre.
José Manuel Moreno |
Infine Rinaldo Martino e Mario Boyé, delle cui eccellenti prestazioni fra il 1945 e il 1947 si ricordano qualche anno più tardi Juventus e Genoa.
Sbarcati in Italia nell’estate del 1949, Martino fa giusto in tempo a vincere lo scudetto 1949-50, mentre Boyé detto “El atomico” desta sensazione nella sua brevissima parentesi italiana. Brevissima perché né a Torino né a Genova hanno fatto i conti con le mogli dei suddetti campioni. Le quali, avvinte dalla nostalgia di casa, costringono i rispettivi consorti a una rocambolesca quanto ignominiosa fuga dal Belpaese.
Nel 1947, intanto, si affaccia sulla scena internazionale uno dei cinque più grandi giocatori di sempre, Alfredo Di Stefano. Per la “Saeta Rubia”, già citato in precedenti articoli per l’allergia a manifestazioni per squadre nazionali, sarà l’unico successo senza indosso una maglia di club.
E qui fa capolino la vocazione della “Copa America” a fare eccezione, a far a pugni con la statistica se non addirittura con la logica e i naturali rapporti di forza.
Com’è possibile che il Brasile, quello per intenderci di Pelé, Didì e Zagallo, poi di Rivelino, Jairzinho e Tostao, sia riuscito a conquistare tre Mondiali fra il 1958 e il 1970, e neanche un titolo sudamericano?
E dopo di loro Zico, Falcao, Socrates e Junior. Nada: zeru tituli.
L’astinenza si protrae inspiegabilmente per qualcosa come quarant’anni, dal 1949 al 1989.
A interromperla, ironia della sorte, un Brasile fra i più contestati di sempre. Quello ultradifensivista di Sebastiao Lazaroni (5-difensori-5, una sorta di sacrilegio), futuro allenatore per nulla apprezzato della Fiorentina, nonché zimbello di “Mai dire goal” per via di un eloquio incomprensibile ai più.
Due più due raramente fa quattro, da queste parti. L’iconografia classica vuole il calciatore brasiliano elegante e aggraziato, e quello argentino, soprattutto in tema di difensori, tignoso e violento?
Beh, chiedete a José Salomon, ruvido terzino argentino vincitore nel 1941 e nel 1945. La sua carriera internazionale si chiude nell’edizione del 1946, a causa di un intervento assassino del sontuoso attaccante brasileiro Chico, che gli fracassa tibia e perone.
E allora, quali le ragioni di una così netta divaricazione dal trend del calcio mondiale?
Il fatto è che la Copa America é un mondo a sé.
Va respirata, va sentita sulla pelle: una pelle che ci immaginiamo imperlata e sudaticcia come in quei romanzi di Garcia Marquez pieni di magia e di passioni ancestrali: e così é certamente stato fino al 1967, quando si é disputata in quelli che per noi sono i mesi invernali, ma che per quelli che stanno nell’emisfero australe significano estate, ed estate torrida.
Fino al 1975 nessuna squadra vincitrice ha mai annoverato fra le proprie fila un giocatore militante in squadre non sudamericane.
C’é stata, per decenni, una scissione quasi bipolare fra la chiassosa fama acquisita da molti pittoreschi eroi idolatrati in Sudamerica, e l’eco attutita, talvolta deformata, che ne giungeva nella lontana e austera Europa.
I massimi cannonieri della rassegna sono il già citato Zizinho e l’argentino Norberto Mendez (17 goal). Vere proprie leggende oltre oceano: note solo ai calciofili più dotti dalle nostre parti.
L’uruguaiano Hector Scarone, unico ad aver vinto la Copa America per quattro volte (1917, 1923, 1924, 1926), tentò l’avventura europea con notevole anticipo sui tempi. Bilancio? Beh, fate voi: 18 partite e 9 goal col Barcellona, 14 partite e 7 reti con l’Inter, 54 partite in due anni con 13 reti al Palermo. Bazzecole, per un autentico monumento, che ha vinto pure due Olimpiadi e il primo Campionato del Mondo della storia.
Poi il calcio industrializzato ha lentamente appiattito tutto: dal 1967 si è traslocato in estate (nella nostra estate), e ciò ha evitato che la massima rassegna sudamericana cascasse nel bel mezzo dei campionati europei.
Ma bisogna aspettare vent’anni per assistere a un massiccio contro-esodo di campioni sudamericani “emigrati”, tornati in patria a “miracol mostrare”.
Nel 1987 l’Argentina Campione del Mondo cala il pezzo da novanta: un Diego Armando Maradona in grande spolvero. Il Brasile risponde con il suo futuro compagno d’attacco al Napoli, il temibile Careca.
Risultato: il Brasile esce nel girone eliminatorio, dopo aver perso 4 a 0 dal Cile. L’Argentina viene eliminata in semifinale dall’Uruguay, che vincerà il torneo. Capocannoniere? Né Maradona né Careca, ma tale Arnoldo Iguaran, colombiano.
Il fatto é che si può essere dei campioni col portafoglio rigonfio di sterline, lire o pesetas, ma la colonna sonora non la si sceglie.
E il ritmo da quelle parti é sempre quello ammiccante dei tango di Astor Piazzolla, talvolta quello felpato della bossanova di Vinicius De Moraes. Ed é un ritmo che più volte respinge i propri figli andati a far fortuna altrove, sintonizzati ormai su frequenze diverse da quelle assimilate in gioventù.
Chi ha raggiunto soldi e gloria nel Vecchio Continente, difficilmente conserva lo spirito per lottare col coltello fra i denti. E se ne ha forza e intenzione (fare la Copa America significa, in soldoni, dimezzarsi le vacanze), deve pur sempre sfidare la ritrosia del proprio club di appartenenza, preoccupato (a ragione) che il proprio gioiello ritorni ammaccato da una contesa che é tutto tranne che una bonaria rimpatriata.
E’ tutto il calcio sudamericano, a ben vedere, ad aver leggi tutti sue.
Il Sudamerica pallonaro é un paese per vecchi e per adolescenti. Un cimitero degli elefanti per campioni scaricati dal calcio che conta, o una palestra formativa per giovani virgulti di belle speranze. La generazione di mezzo non esiste: se non sotto forma di emeriti brocchi che non han trovato ingaggio nemmeno nel più scalcinato dei campionati europei.
A volte, é semplicemente un paese per matti: per gente naif dalle indiscutibili qualità pedatorie, ma dalla testa svitata e da una palese idiosincrasia verso tutti quelli aspetti del gioco che concernono la tattica e la corsa.
Reso il dovuto omaggio al genio brasiliano Edmundo detto “o’ animal”, va detto che si potrebbe riempire un intero elenco telefonico con i nomi dei giocatori soprannominati, mai a sproposito, “El loco” (il matto).
Hugo Gatti, portiere argentino anni ‘70, soffriva tremendamente la solitudine e gli interminabili momenti morti che il ruolo comporta.
Così sovente si lanciava, con la lunga zazzera tenuta a bada da una bandana variopinta, in uscite spericolate a centrocampo. Un paio di volte si è pure arrampicato sulla traversa e vi si é seduto sopra: così, per vedere l’effetto che fa.
Un giorno, in Argentina, si ritrova davanti un piccoletto grassoccio di neanche vent’anni. Lo apostrofa: “Nanerottolo, sei troppo grasso per farmi goal”. Il ragazzino, indispettito, gliene fa quattro: si chiamava Diego Armando Maradona …
Martin Palermo, appena ritiratosi dal calcio giocato, i capelli preferiva tingerseli di biondo platino.
Centravanti argentino fra i più prolifici degli ultimi vent’anni, entra nella leggenda durante la Copa America 1999. Quando contro la Colombia sbaglia 3 rigori nel medesimo match, record tuttora imbattuto. Pazzo lui, certo, ma che dire del suo allenatore che per tre volte lo lascia andare sul dischetto senza batter ciglio?
Recente new entry, infine, l’uruguagio Sebastian Abreu. Che ai Mondiali di Sud Africa 2010 segna il rigore decisivo contro il Ghana (che dà alla sua Nazionale una semifinale attesa 40 anni) facendo “il cucchiaio”, come uno sbruffoncello qualsiasi in un torneo fra bar.
Tutto ciò per dire che non c’é da stupirsi granché se i sopraccitati “locos” hanno poi raccolto ben poche soddisfazioni nel cartesiano calcio europeo, allorquando abbiano deciso di cimentarvisi.
Il calcio sudamericano é questo, prendere o lasciare: la sua massima rassegna internazionale non ha fatto altro che andare di conseguenza.
Per l’Europa e per i suoi mercanti di carne umana calciante, tuttavia, é sempre parso più fruttuoso reperire la materia prima in giovane età, ritenendola più facilmente plasmabile.
Ma é l’edizione del 1957 ad assurgere ad autentico paradigma di questo rapporto di osmosi fra calcio sudamericano ed europeo.
E’ infatti la Copa America de “Los Carasucias” (“gli angeli dalla faccia sporca”), la formidabile prima linea argentina composta da Omar Sivori, Antonio Valentin Angelillo e Humberto Maschio.
Sivori va alla Juventus, dove diventerà ben presto una star, Maschio finisce al Bologna, ma vivrà fra alti e bassi la sua carriera italiana, osteggiato in particolare da Helenio Herrera nella sua parentesi interista.
Angelillo, invece, ballerà una sola estate (33 goal all’Inter nel campionato ‘58-’59) prima di piombare in una precoce mediocrità e trovare l’amore sotto forma di una velina ante-litteram.
Dagli anni ’90 in poi il traffico unidirezionale via Atlantico si fa sempre più congestionato.
L’edizione del 1991 incorona un giovanissimo bomber argentino di nome Gabriel Omar Batistuta.
Batistuta fatica parecchio nella prima stagione, per poi esplodere nella seconda (16 goal), che tuttavia porta alla retrocessione dei Viola. Quanto a Latorre, approdato a Firenze nell’estate ‘92, gioca due partite e sparisce mestamente dalla circolazione.
Fra i soliti vasi di ferro si fa largo nel 1975 il Perù del grande fuoriclasse Teofilo Cubillas, ma anche del minuscolo difensore Hector Chumpitaz detto “El granitico”, dell’ala Juan Carlos Oblitas e del giovane Geronimo Barbadillo, poi protagonista in Italia con Avellino e Udinese.
Presentatisi come campioni sudamericani in carica ai Mondiali argentini del 1978, i discendenti dei vecchi Incas chiudono ingloriosamente la rassegna iridata con un umiliante 6-0 (la famigerata “marmelada peruana”) contro i padroni di casa: risultato palesemente pilotato per agevolare l’accesso alla finale dell’Argentina.
L’edizione del 1997 porta alla ribalta la Bolivia padrone di casa, trascinata dalle prodezze di Erwin Sanchez, detto “Platini” (con notevole sforzo d’immaginazione…), e da condizioni climatiche proibitive, leggi 3.000 e passa metri sul livello del mare, per gran parte degli avversari.
Nel 2001 trionfa la Colombia di Francisco Maturana, un “Arrigo Sacchi delle Ande” che sul finire degli anni ‘80 contendeva al santone romagnolo la palma di profeta del calcio del futuro. Fra i migliori, i difensori centrali Ivan Ramiro Cordoba e Mario Yepes, ben noti ai tifosi milanesi di entrambe le sponde.
Sui gradini più bassi del podio due paesi “intrusi”: il Messico e il piccolo l’Honduras, che elimina, udite udite, il Brasile nei quarti di finale.
Da allora la Copa America pare aver messo la testa a posto. Due vittorie del Brasile (2004 e 2007), entrambe in finale con l’Argentina, danno l’idea di una certa corrispondenza agli effettivi valori in campo.
Nel 2004, per la prima volta, la maggioranza dei vincitori non milita in campionati sudamericani (10 “europei” e un “giapponese” fra i 22 brasiliani in rosa). Tre anni dopo, é l’ultima edizione disputata, la sproporzione (19 “emigrati” su 22) é inequivocabile.
L’europeizzazione é imponente e pare inarrestabile. Nell’era del calcio globalizzato, la via sudamericana al football pare una pia illusione: non nell’accezione di solo una ventina d’anni orsono, almeno.
La tara del valore delle squadre si fa su quanti giocatori della Premier League inglese ha la squadra X e quanti della Liga spagnola ha la squadra Y. Le possibilità che qualche talento formidabile sia sfuggito ai radar dei grandi club europei sono praticamente nulle.
Detto questo, gli amanti dei coup de theatre non disperino.
Solo un anno e mezzo fa l’Argentina, nonostante il Pallone d’Oro Messi in campo e Maradona in panchina (ma qui sul “nonostante” si potrebbe obiettare ...) ha perso 6 a 1 dalla Bolivia rischiando di non qualificarsi per i Mondiali: traguardo raggiunto invece con nonchance dai piccoli Paraguay e Cile.
Intanto, il Messico, fra le nazioni più prolifiche di talenti negli ultimi anni, si presenterà con una squadra decimata e riassemblata alla bell’e meglio: perché otto giocatori sono stati beccati in flagranza di “bunga bunga” nell’ hotel che ospitava la rappresentativa centroamericana.
E allora vien da pensare che tutto sia ancora possibile. Perché oggi come quasi cent’anni fa vale lo stesso detto: mai dare nulla per scontato, alla Copa America.