Sembra incredibile, alla luce del rutilante circo mediatico-mercantile che é diventato il calcio ai giorni nostri.
Eppure c’é stato un tempo, neanche troppo lontano (si parla necessariamente del secondo Dopoguerra in avanti), in cui un calcio marziale, disadorno, sottomesso alla ragion di Stato, teneva testa a quello opulento dell’Europa occidentale e a quello naif ma altrettanto virtuoso del Sudamerica.
E’ il football dell’Est Europa, dei Paesi finiti nell’area d’influenza dell’Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale, impregnato di oscure e inquietanti storie che odorano di KGB e film di spionaggio.
Dinamo, Cska, Torpedo, Lokomotiv: nomi tetri e militareschi, espressione di apparati burocratici o rami dell’esercito, che battezzano le squadre di Mosca come quelle di Sofia o Berlino Est.
Stipendi da impiegati del catasto, qualche giorno di licenza premio come ringraziamento per i servigi prestati, facce seriose per non dire funeree.
A monte, una curiosa anomalia che riguarda proprio la nazione guida, l’Urss. Certamente non la prima ad affacciarsi sul proscenio calcistico mondiale.
L’Ungheria in particolare, ma anche la Cecoslovacchia , ereditano infatti la sapienza calcistica maturata prima della guerra, quando il cosiddetto calcio “danubiano” ( che ebbe la massima espressione nel “Wunderteam” austriaco anni ’30), dettava legge nel Vecchio Continente.
La stessa Yugoslavia porta a casa una medaglia d’argento nella prima manifestazione post-bellica, le Olimpiadi di Londra 1948.
La ben nota “via jugoslava al comunismo”, applicata da Tito in parziale indipendenza da Mosca, si riverbera anche nelle faccende calcistiche, facendo quasi subito dei nostri vicini adriatici un’eccezione nel panorama orientale.
A partire dalla seconda metà degli anni ’50, infatti, non é per nulla inusuale vedere calciatori slavi calcare i palcoscenici occidentali per gentile concessione di Belgrado.
I fratelli Cajkovski, protagonisti dell’impresa del ’48, finiranno in Germania (Ovest, s’intende), come di lì a qualche anno il portiere Beara e il fortissimo Zebec.
Il fuoriclasse Vukas approderà con scarsa fortuna al Bologna, mentre Vujadin Boskov (sì, quello del “rigore é…quando arbitro fischia!”) sbarcherà a Genova in compagnia di Veselinovic, prendendo confidenza con l’ambiente sampdoriano prima di tornarvi trionfalmente da allenatore un quarto di secolo dopo.
Se la Cecoslovacchia raggiunge il suo apice con la finale Mondiale del 1962, é però l’Ungheria l’indiscutibile faro del calcio comunista.
Sul finire degli anni ’40 sboccia infatti una generazione di fuoriclasse irripetibili: Ferenc Puskas su tutti, e a ruota Bozsik, Kocsis, Hidegkuti, Grosics e Czibor. E’ l’Aranycsapat (la squadra d’oro): il gradino più alto del podio alle Olimpiadi del 1952, una epica vittoria contro i “maestri” inglesi (prima squadra continentale ad espugnare Londra), e il Mondiale del 1954, stradominato e poi perso sciaguratamente contro una modestissima (e probabilmente dopata) Germania Ovest.
All’appello, in quella magnifica squadra, mancano però due grandi solisti, rimasti ai margini di quell’orchestra indimenticabile.
Il primo é Ferenc “Bamba” Deak. Di professione macellaio, é un centravanti di potenza inaudita, alquanto anomalo nel contesto elegante e flemmatico del football magiaro. Mostruoso il suo score in Campionato nella seconda metà degli anni ’40: 66 goal nel ’46, 48 nel ’47, 41 nel ’48, 59 nel ’49.
Si rivelerà fuori dal coro non solo per ragioni tecniche. Inviso forse al grande Puskas e, cosa assai peggiore, al Regime per colpa di qualche esternazione di troppo, perde presto il posto in Nazionale, per poi eclissarsi lentamente fino a sparire mestamente di scena.
Il secondo é Laszlo Kubala. Enfant prodige al pari di Puskas, ma decisamente più inquieto del rivale, ha doppio passaporto per via dei genitori, originari di Bratislava, in Cecoslovacchia (nella cui Nazionale giocherà 6 partite).
Così nel 1946 fugge allo Slovan Bratislava, dove si innamora della figlia dell’allenatore, che presto gli darà un figlio.
Torna in Ungheria senza la famiglia, ma stavolta gli tolgono il passaporto e lo inseriscono nella famigerata “Legione Rossa”.
Allora Kubala decide per un’altra fuga: quella definitiva, quella verso l’Occidente. Cerca contratti nei grandi club italiani, mantenendosi in forma con qualche partitella nella Pro Patria di Busto Arsizio, ma la Federazione Ungherese dice niet.
Così fonda col suocero Ferdinand Daucik, l’Hungaria, un’Armata Brancaleone che raccoglie tutti i calciatori ungheresi in fuga per l’Europa.
Primo e unico esempio di squadra non stanziale nella storia, l’Hungaria é un ordine di cavalieri senza titoli, senza signori cui giurare fedeltà, che vaga di paese in paese in cerca di gloria e di qualche tozzo di pane.
I nostri eroi approdano infine nell’accogliente penisola iberica, dove dei profughi in fuga dal comunismo sono manna dal cielo, trofei da esibire nella vetrina della propaganda del regime fascistoide del Generalissimo Franco.
Non é il caso di sottilizzare, quando non sei altro che una patata bollente da palleggiare da un'ambasciata all'altra. Ma le strade più battute non fanno per Laszlo che, sempre col suocero in panchina, preferisce il Barcellona, portabandiera della Catalogna che resiste fieramente al Franchismo.
I sanguinosi fatti del 1956 pongono fine all’epopea dell’Aranycsapat. In tournée per l’Europa al momento della rivolta, Puskas, Kocsis e Czibor fuggiranno in Spagna: il primo al Real Madrid, gli altri due al Barcellona, dove ritroveranno Kubala.
E la “grande madre Russia”? Assente ingiustificata. Almeno fino al 1956, quando vince a mani basse le Olimpiadi di Melbourne.
E’ una squadra che annovera un fuoriclasse stratosferico, il leggendario portiere Yaschin, tanti buoni giocatori (Netto, Simonian, Valentin Ivanov), e un cucciolo di campione, Eduard Streltsov, cui verrà impedito di mantener fede alle promesse.
Diciannove anni, Streltsov é un geniaccio irriverente, ha il carattere da star occidentale, numeri da brasiliano (ancora oggi i russi chiamano “streltsov” il colpo di tacco) e una squadra, la Torpedo Mosca , non proprio nelle grazie della nomenclatura: certo meno influente del CSKA, il club dell’esercito, o della Dinamo, emanazione dei servizi segreti.
La favola del ribelle Streltsov si trasforma in incubo due anni dopo, alla vigilia dei Mondiali di Svezia.
Eduard Streltsov |
L’indomani di una festa organizzata nell’entourage sovietico, viene infatti accusato di violenza carnale: indotto a confessare in cambio della falsa promessa di un’immediata riabilitazione, finirà in un gulag.
Assai diversa, peraltro, la versione dei bene informati: pare che Stretsov, leggermente brillo, avesse respinto le avances della figlia, non particolarmente avvenente, di una funzionaria del Politburo, con un poco elegante “non andrò mai con quella scimmia!”.
Verità o leggenda, tornerà al calcio parecchi anni dopo, giusto in tempo per concludere una carriera comunque bruciata, per poi morire a 53 anni, per un tumore alla gola, retaggio, chissà, degli anni di prigionia.
Gli anni ’70 settanta segnano il tramonto del calcio ungherese, che avrà in Florian Albert, Pallone d’Oro 1967, l’ultimo campione di un certo livello, per poi declinare in modo inarrestabile fino alla desolante mediocrità di oggigiorno.
Salgono invece alla ribalta nuove nazioni: la Polonia di Deyna e Lato (un oro olimpico e due semifinali mondiali nel giro di dieci anni), la Bulgaria di Bonev, la Romania di Georgescu.
E la Germania Est , straripante nell’atletica leggera e in tutti gli sport che hanno nelle Olimpiadi la propria espressione più alta, quanto mediocre nel gioco più in voga nell’Europa capitalista.
Non é esatto dire che il football non fosse gradito ai burocrati di Berlino Est. Prova ne sia il fatto che il presidente della Dinamo Berlino fosse niente popò di meno che il capo della STASI, Erich Mielke.
Uno a cui piaceva vincere facile: lo squadrone berlinese, agevolato senza pudore dagli arbitri e destinazione obbligata (nell’accezione più spinta del termine) per tutti i migliori giocatori, porterà a casa qualcosa come dieci scudetti consecutivi fra il 1978 e il 1988!
Ci sarebbe quasi da ridere, se non fosse che chi non gradiva la destinazione faceva una brutta fine. Come Lutz Eigendorf, giovane promessa della Dinamo che nel 1979 fuggì all’Ovest, destinazione Kaiserslautern.
Mielke fa mettere sotto sorveglianza la famiglia rimasta nella DDR: la moglie finirà per sposare una delle spie che la controllavano (quando si dice oltre al danno la beffa…) e lui morirà in un incidente stradale nel 1983. Solo anni dopo, una volta svelati i dossier più spinosi, si avrà certezza di ciò che tutti avevano intuito: Eigendorf fu avvelenato prima di mettersi alla guida.
Il calcio DDR raggranella comunque quattro medaglie olimpiche, di cui una d’oro (Montreal 1976), ma ha il suo unico vero giorno di gloria il 22 giugno 1974, quando ad Amburgo sconfigge i cugini occidentali nel girone eliminatorio del Campionato del Mondo.
Merito del goal di tale Jurgen Sparwasser, carneade destinato ad imperitura memoria per un’impresa quanto mai estemporanea, visto che la Germania Ovest vincerà ugualmente quel Mondiale casalingo, e del calcio giocato nella parte di Germania di là dal Muro si ricorderà poco altro.
Intanto i Ministeri dello Sport d’Oltrecortina cominciano ad allentare le briglie. Prende piede l’abitudine, già in voga come detto nella meno intransigente Yugoslavia, di concedere ai campioni più “agés” di espatriare sul finire di carriera: giusto per monetizzare qualcosa, ma non prima di aver immolato il meglio della carriera per la Patria.
Così il grande polacco Deyna dopo un paio di stagioni in Inghilterra, attraverserà l’Oceano a trentaquattro anni per dare gli ultimi calci negli States. Il ceko Nehoda allo scoccare dei trenta prenderà la via della Germania Ovest, mentre l’idolo ucraino Blokhin dovrà attendere i trentacinque per lasciare Kiev e raggranellare qualche buon ingaggio in Austria e a Cipro.
Ci vorranno invece i buoni uffici dell’Avvocato Agnelli per accelerare l’espatrio del ventiseienne polacco Boniek nel 1982 e del ventisettenne sovietico Zavarov nel 1988: zelo ben ripagato nel primo caso, assai meno nel secondo.
Già, perché il leit-motiv, calcisticamente parlando, degli ultimi anni della CCCP é la cronica incapacità dei giocatori sovietici ad adattarsi al calcio, e ancor più allo stile di vita, occidentale.
Ammaliati dai benefici del consumismo come bambini che entrano per la prima volta in una pasticceria, dissiperanno il loro talento con una facilità irrisoria, dando una botta non indifferente allo stereotipo sin lì in voga che voleva i figli del Comunismo austeri e impermeabili ai piaceri materiali.
Detto dello stralunato Zavarov juventino, vanno ricordati Igor Belanov, Pallone d’Oro 1986, che militerà nel Borussia Moechengladbach con risultati disastrosi, e il biondissimo Mikhailichenko, che apporterà un contributo minimo allo scudetto sampdoriano del 1991.
Peggio di tutti é andata però a Rinat Dasaev, ieratico guardiano della porta dello Spartak Mosca, definito da molti “il nuovo Yaschin”.
Il suo trasferimento al Siviglia farà la fortuna di qualche burocrate moscovita: lui viceversa finirà sull’orlo dell’alcolismo e per due volte nel fosso che delimita il Palazzo dell’Università, concludendo ingloriosamente una grande carriera.
A proposito di Siviglia: é sempre il capoluogo andaluso a decretare il trionfo e la fine di un altro grande portiere, il rumeno Helmut Ducadam.
Semisconosciuto estremo difensore della Steaua Bucarest, il mondo si accorge di lui il 7 maggio 1986, quando para quattro rigori su quattro nella finale di Coppa dei Campioni contro il favoritissimo Barcellona.
Un eroe nazionale, la cui gloria, certo indigesta a molti, dura lo spazio di un mattino.
Tempo un mese e poco più, infatti, e su di lui cala l’oblio, repentino e assordante.
Le laconiche fonti ufficiali liquidano la faccenda parlando di una violenta trombosi a un braccio che pone inevitabilmente fine alla carriera del grande campione.
Strano, per uno che qualche settimana prima dimenava quei possenti arti come enormi tentacoli. E infatti c’é dell’altro.
Qualcuno, pare, ha omaggiato Ducadam di un regalo troppo ingombrante. Si vocifera di una Mercedes, dono addirittura di Re Juan Carlos di Spagna, tifosissimo del Real Madrid e grato al portierone per aver inferto una ferita mortale ai rivali del Barcellona.
Qualunque fosse il regalo, e chiunque ne fosse l’autore, il figlio di Ceausescu arroga a sé il diritto d’impadronirsene. Ducadam rifiuta e i bravi del piccolo dittatore gli fracassano le mani a sprangate.
E’ un sistema, quello del calcio dell’Est, che sta implodendo, parallelamente al sistema politico sovrastante.
L’ultimo vagito é l’Unione Sovietica futurista e fantascientifica di Valeri Lobanovski, colonnello dell’Armata Russa con velleità da apprendista stregone.
Il suo laboratorio é la Dinamo Kiev , di fatto trapiantata pari pari in Nazionale. La sua é una versione in salsa calcistica del collettivismo bolscevico, con giocatori trasformati in pedine perfettamente interscambiabili e sincronizzate.
Ma il cosiddetto “calcio del Duemila”, stringi stringi, raccoglie poco: una Coppa delle Coppe con la Dinamo Kiev nel 1986, e una finale agli Europei nel 1988.
L’ultima esibizione internazionale dell’Urss, a Italia ’90, é un pianto. Lobanovski si trova a radunare giocatori sparsi per l’Europa, spaesati e appesantiti, e capisce che il suo calcio, fatto di allenamenti maniacali e schemi da riprovare ossessivamente fino allo sfinimento, non é più riproducibile.
Meglio faranno la Yugoslavia (anche lei all’ultima recita prima dello smembramento degli anni successivi), la Romania e la Cecoslovacchia.
Forse più inclini storicamente al nomadismo, slavi, ceki e rumeni si caleranno con prontezza in un calcio profondamente diverso e faranno tesoro dell’aggiornamento professionale loro elargito, tanto che le rispettive nazionali risentiranno solo in parte del brusco cambio di rotta. Al contrario dell’ex-Urss, appunto, che darà cenni di vita solo nel 2006 (quarti di finale mondiali per l’Ucraina di Shevchenko) e nel 2008 (semifinali europee per la Russia ).
Quanto ai club, le Dinamo, le CSKA, le Lokomotiv, riemergeranno sul palcoscenico europeo nel Terzo Millennio, foraggiate non più da qualche plumbeo Ministero, bensì da magnati e faccendieri dalle discutibili fortune. Ma questa, é proprio un’altra storia.
Bellissimo articolo complimenti vivissimi
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