Si è scritto molto circa la funzione unificatrice della Prima Guerra Mondiale, nel lungo e tormentato processo di formazione dello Stato italiano.
Una sorta di corso accelerato di vita in comune per un popolo che, nei suoi primi cinquant’anni e più, aveva vissuto in un’unità più che altro virtuale, in singoli microcosmi che perseveravano nel germogliare in vasi non comunicanti.
Questione di distanze geografiche, di contesti socio-economici eterogenei, di una lingua italiana ben lungi dall’essere di uso generalizzato.
I soldati Gassman e Sordi della “Grande Guerra” di Monicelli, l’uno milanese (leghista ante-litteram?) l’altro borgataro romano, rappresentano mirabilmente quella prima, sconvolgente, presa di contatto fra compatrioti che mai altrimenti avrebbero avuto occasione né motivo di incontrarsi.
Ebbene: quando, il 28 giugno 1914, l’attentato all’erede al trono d’Asburgo dà, di fatto, il via alle ostilità, il “Giro ciclistico d’Italia” ha appena portato a termine la sua sesta edizione, ed ha già costruito una parte considerevole della sua epopea.
Accostamento ardito, non c’é dubbio. Da una parte uno dei più sanguinosi conflitti bellici, tale da stravolgere gli assetti geopolitici del Vecchio Continente e non solo; dall’altra un semplice avvenimento sportivo, sia pur particolarmente popolare.
Siamo peraltro lontani anni luce anche dalla dimensione mediaticamente imponente che certi avvenimenti sportivi hanno raggiunto nel tempo, al punto da destare l’interesse della politica e delle connesse esigenze propagandistiche.
Le corse in bicicletta del primo Novecento sono infatti odissee senza certezza di ritorno a casa, con organizzazioni approssimative e giusto un manipolo di intraprendenti giornalisti al seguito.
I ciclisti? Spiantati avventurieri, soldati di ventura. Loschi cacciatori di taglie (3000 lire al vincitore del Giro ti sistemano per la vita) che si sfidano, senza esclusione di colpi, su strade senza legge: dissestate, sudice e tenebrose, giacché correre in notturna è la norma.
Poco più che mulattiere, ampiamente sufficienti del resto in un Paese in cui la mobilità é ridotta ai minimi termini. Niente camionisti, pendolari, agenti di commercio e via dicendo: al massimo contadini che fanno avanti e indietro dal borgo natio alla città più vicina.
Ed ecco allora che questi cavalieri su due ruote sono fra i primi eroi popolari ad “accorciare” idealmente questa nostra patria che assomiglia ancora a una Torre di Babele, dilatata nella percezione comune proprio da una rete stradale deficitaria e nemmeno lontanamente paragonabile a quella odierna.
Lungo gli infiniti e sfiancanti percorsi di gara capita che si fermino nelle osterie per bere qualcosa o espletare bisogni impellenti. Dapprima si esprimono, fra di loro o con i commensali, ciascuno nel loro arcano idioma; salvo poi arrendersi all’evidenza, ed andare alla ricerca di locuzioni condivise e comprensibili dagli astanti.
E’ lo stesso sforzo compiuto dai soldati che, fianco a fianco nelle trincee del Cadore, ingannano la paura raccontandosi delle propria terra d’origine. Quasi certamente sconosciuta al vicino di sventura: il quale, tuttavia, comincia empiricamente a costruirsi nella testa un’approssimativa geografia dello Stivale.
E’ per certi versi simbolico che tante di quelle cime teatro di epiche battaglie, diventeranno protagoniste nel grande romanzo del Giro.
Tre Cime di Lavaredo, Passo dello Stelvio, Monte Grappa, Passo Falzarego, Altopiano di Asiago, Passo del Tonale.
Luoghi di sacrari, di ossari, di cunicoli e fortezze austro-ungariche. E di grandi imprese ciclistiche.
Il primo Giro d’Italia vede la luce il 13 maggio 1909. Si parte all’alba da Milano, Piazzale Loreto: anche qui, un luogo destinato a lasciare un segno indelebile nella storia patria.
Si punta Bologna, poi di lì a Chieti. Il 18 si é già a Napoli: più veloci di Garibaldi e Nino Bixio.
Ma é un’anomalia: perché queste Spedizioni dei Mille (erano 127 nel 1909, ma il numero lieviterà con gli anni) andranno quasi sempre in direzione inversa rispetto agli uomini in rosso capitanati dall’Eroe dei due Mondi.
Da Sud verso Nord: dove stanno appunto le grandi montagne (che peraltro verranno affrontate solo a partire dagli anni ’30), e dove quindi l’evento squisitamente agonistico ha necessariamente il suo apice.
Il ciclismo dei primordi è, detto per inciso, prima di tutto uno straordinario veicolo pubblicitario per le ditte del settore. C’è, infatti, una certa avversione per questo curioso mezzo di locomozione che terrorizza i pedoni e suscita curiosità pruriginose sulla postura in sella: al punto che ne viene vietato l’uso, per questione di decoro, a donne e sacerdoti.
Si fa largo invece l’idea di un utilizzo in ottica militare. “Ciclisti siamo … andiamo in fretta … che i primi siamo … sul campo dell’onor!”, recita enfaticamente l’inno ufficiale del battaglione dei “Bersaglieri ciclisti”.
E così, quello del 1912 sarà l’unico Giro d’Italia disputato a squadre. Vincerà l’Atala sulla Peugeot, ma sarà la Bianchi a vincere l’appalto per la Grande Guerra , fornendo all’esercito qualcosa come 60.000 biciclette.
Luigi Ganna |
L’avventurosa vittoria di Calzolari nel 1914 chiude l’epoca del ciclismo pionieristico, di Luigi Ganna vincitore del primo Giro al grido “me brusa il cul” e di Giovanni Gerbi battezzato “diavolo rosso” da un prete perché un giorno irrompe a tutta velocità, con un maglione rosso fiammante, nel bel mezzo di una processione religiosa.
La “corsa rosa” riparte trionfalmente nel 1919, per incoronare Costante Girardengo, il primo grande idolo delle folle.
Il Fascismo, senza dubbio lungimirante nella subdola arte della creazione del consenso, cavalcherà l’onda di questo straordinario evento che per una manciata di settimane fa sentire gli italiani tutti attori di un medesimo spettacolo a cielo aperto.
Gli ultimi colpi di coda di Girardengo, Alfredo Binda pagato per non correre un Giro che con la sua superiorità avrebbe reso di una noia mortale. Tano Belloni “l’eterno secondo”, Learco Guerra “la locomotiva umana”, Gino Bartali e i primi vagiti della rivalità con Coppi.
Poi la Seconda Guerra Mondiale: Bartali staffetta partigiana e Coppi prigioniero in Africa sono la fotografia dell’indissolubile simbiosi fra l’Italia e i suoi campioni del pedale.
Quando tutto finisce, gli italiani che rialzano faticosamente il capo hanno fretta di tornare alla normalità: e normalità vuol dire Giro d’Italia.
Ma quello del 1946 é un azzardo: nessuno può ancora garantire le condizioni logistiche e di sicurezza necessarie.
Gli sponsor scarseggiano, e così fra le squadre al via ci sono il “Fronte della gioventù”, già organizzazione partigiana di ispirazione comunista, e il “Centro Sportivo Italiano”, di matrice cattolica.
Lanci di pietre e colpi di pistola consigliano a Bartali e soci di far dietrofront. Ma alcuni, convinti dai corridori della “Wilier Triestina”, decidono testardamente di proseguire e, scortati dalle camionette anglo-americane, di entrare in città: dove sarà proprio il triestino Giordano Cottur a tagliare per primo il traguardo, fra un tripudio di bandiere tricolori.
Di lì in avanti l’Italia e il suo Giro non si lasceranno più. Si daranno appuntamento ogni anno, all’esplodere della primavera: più o meno alla stessa ora, più o meno negli stessi posti, per raccontarsi cosa c’é di nuovo nella Penisola.
Se un cineasta avesse potuto piazzare una telecamera su un tornante, che so, del Pordoi, avrebbe potuto scorgere, anno dopo anno, l’evolversi dell’abbigliamento, delle acconciature, dell’espressività e del linguaggio di un popolo intero.
Il sogno di una rinascita nel Dopoguerra, infatti, passa ancora per quelle strade sventrate dai bombardamenti, percorse a tutta velocità dai due rivali per eccellenza. Il cattolico Bartali battezzato “il Pio”, e il laico Coppi, che diventa comunista di riflesso: quasi per esigenze di copione, perché la favola fila meglio così.
L’epopea del Grande Torino rimane chiusa entro le mura di uno Stadio, l’angusto Filadelfia, che può ospitare solo pochi fortunati. Per gli altri, solo mozziconi di partita nei cinegiornali o foto sbiadite di Valentino Mazzola sulla Gazzetta.
L’epopea del Grande Torino rimane chiusa entro le mura di uno Stadio, l’angusto Filadelfia, che può ospitare solo pochi fortunati. Per gli altri, solo mozziconi di partita nei cinegiornali o foto sbiadite di Valentino Mazzola sulla Gazzetta.
Ma il Giro ti passa sotto casa, non chiede il biglietto a nessuno: solo la pazienza di aspettare, come direbbe Paolo Conte, “in cima a un paracarro”.
"Ladri di Biciclette", 1948 |
E’ l’età dell’oro: una quindicina d’anni in cui una generazione di sontuosi fuoriclasse si incastra magicamente con una centralità mai ripetuta della bicicletta nella vita della gente comune, tanto da assurgere ad autentica icona del cinema neorealista. De Sica, in particolare, ne fa ampio uso, dallo struggente “Ladri di biciclette” dove la bici é essenziale strumento di sostentamento, alla più scanzonata saga del maresciallo Carotenuto di “Pane, amore e fantasia” che scarrozza Marisa Merlini per le strade della Ciociaria.
Dietro ai due Campionissimi, scalpitano Fiorenzo Magni (il “terzo incomodo per antonomasia”), Gastone Nencini, Ercole Baldini. E gli stranieri.
L’etereo elvetico Hugo Koblet, armonioso come un Dio greco e civettuolo come un divo hollywoodiano paparazzato per le vie di Roma, é il primo non italiano a vincere il Giro, nel 1950: lo seguono il connazionale Carlo Clerici (di padre italiano) nel 1954 e il lussemburghese Charly Gaul nel 1956 e nel 1959.
E’ la dimostrazione di un’accresciuta reputazione internazionale del Giro, ormai ai livelli del Tour de France. Non certo il segnale di una minor competitività dei nostri corridori: che infatti restituiscono il favore con Bartali (1948), Coppi (1949 e 1952) e Nencini (1960) sulle strade di Francia, e pure alla Vuelta Espana con Angelo Conterno nel 1956.
Fausto Coppi muore all’alba del 1960. Lo stesso anno in cui, con le Olimpiadi di Roma, la nuova Italia, figlia del boom economico, si mostra orgogliosa al mondo.
Si entra in una nuova era.
I corridori vestono maglie variopinte, tappezzate di sponsor, fieri portabandiera di quella media imprenditoria in espansione, che sarà l’architrave del “miracolo italiano”.
Salami (Molteni), Liquori (Carpano), lacche per capelli (Tricofilina), macchine da caffè (Faema), cucine (Salvarani), gelati (Sanson): niente a che vedere con la Juventus targata FIAT, l’Inter del petroliere Moratti o il Napoli dell’armatore Achille Lauro.
Le strade, per la gioia dei concorrenti, sono ricoperte magicamente da colate di asfalto: tutte, anche le salite più arcigne, che mostrano ora un volto più umano. E i cavalieri delle due ruote non sono più eroi semi-muti che si limitano a “sono contento di essere arrivato uno” (sempre Luigi Ganna), ma sono chiamati a lanciarsi nel loro italiano spesso ancora approssimativo e vernacolare nei “Processi alla tappa” di Sergio Zavoli.
Capita così che Lucillo Lievore, misconosciuto gregario veneto, venga pedinato con impenitente voyeurismo: pedalata dopo pedalata, gemito dopo gemito, imprecazione dopo imprecazione, nella sua commovente rincorsa ad un misero secondo posto (sic!) di tappa.
E capita pure che l’impetuoso abruzzese Vito Taccone (uno che oggi farebbe la fortuna di qualsiasi reality) diventi un protagonista assoluto: con la lingua prima ancora che con le gambe. Senza salire mai sul podio finale (era peraltro un ottimo scalatore) ma contribuendo in modo decisivo a spostare la geografia della passione per il ciclismo verso Sud.
Ma quella degli anni ‘60 é un’Italia che viaggia ormai su quattro ruote. La cara vecchia bici diventa, per certi versi, un retaggio di un passato di stenti che tutto sommato si può anche mandare in soffitta.
In un paese in crescente sviluppo industriale, i milioni di operai si identificano nelle imprese della squadre calcistiche metropolitane. Gli immigrati dal Meridione trovano nel tifo per la Juventus , di proprietà di colui che per molti di loro é il datore di lavoro, una prima forma di integrazione sociale.
Il ciclismo resta uno sport legato indissolubilmente alla provincia, alle radici contadine del paese: così gradualmente inizia a cedere il passo al football negli interessi degli sportivi.
Negli anni ’70, ’8o e ’90, mezze figure e meteore fanno spesso capolino sul gradino più alto del podio.
Poco aggiungono alla gloriosa bacheca della “corsa rosa” i nomi di Gosta Pettersson (1971), Fausto Bertoglio (1975), Michel Pollentier (1977), Johan De Muynck (1978), Andy Hampsten (1988) e Eugeni Berzin (1994).
I duelli fra Merckx e Gimondi prima, fra Moser e Saronni poi, sono degni epigoni di quelli del ciclismo eroico. Ma non sono certo folle oceaniche quelle che si dividono, nei primi anni ’90, fra il tifo per Gianni Bugno e quello per Claudio Chiappucci.
Il ciclismo rischia di diventare “uno sport per vecchi”, che sopravvive grazie ai ricordi di chi ha i capelli bianchi: eccezion fatta per certe “enclavi” storiche, dal Veneto alle province di Brescia e Bergamo, dove la passione resta fortemente radicata nel territorio.
Solo l’accresciuta sensibilità per le tematiche ecologiste, la valorizzazione soprattutto in ambito urbano della bici come mezzo di locomozione non inquinante, riporterà il vecchio velocipede in auge: ma di questo il ciclismo agonistico non coglierà che frutti parziali.
L’ultimo grande sussulto è legato alla controversa parabola di Marco Pantani: ai suoi scatti fulminei e rabbiosi, ai suoi immaginifici attacchi da Don Chisciotte a cavalcioni di un destriero di metallo.
Poi, nel 1998, esplode la bufera doping, che travolge tutto.
Alla sua morte, il “pirata” di Cesenatico viene repentinamente introdotto nell’Olimpo dei grandi del passato: ma si ha quasi la sensazione che quel giorno a Madonna di Campiglio in cui Pantani viene trovato positivo, il ciclismo si sia giocato il presente e forse anche il futuro.
Passo del Mortirolo, 1994: nasce la "Pantanimania" |
Il rispetto, che sconfina nella venerazione, per i tempi andati (non riscontrabile peraltro in nessun altro sport) , se da un lato fa onore a un mondo che coltiva la memoria delle proprie origini, dall’altro sa talvolta di un ambiguo tentativo di vivere di rendita, di un tirare a campare riempiendo i vuoti di palinsesto e di emozioni con suggestivi “amarcord” della gloria che fu.
I campioni di oggi sono gelide macchine da prestazione. Preparano il Giro o il Tour in altura, lontano da occhi indiscreti. Testano l’aerodinamicità nelle gallerie del vento, neanche fossero astronauti in missione su Marte. E corrono come saette un paio di mesi l’anno, per poi sparire nel nulla.
Da un po’ di tempo, il Giro ha riscoperto le “strade bianche”, lo sterrato. Una sciccheria un po’ retrò, forse una mossa della disperazione: perché sin troppi Carneadi ormai sono in grado di spianare quelle salite dai nomi evocativi e altisonanti, dove un tempo Binda rifilava delle mezz’ore ai rivali.
C’è, infatti, una toponomastica, devota e solenne, totalmente incomprensibile ai profani, che ridisegna il territorio italico disseminandolo di luoghi sacri, resi leggendari dalle gesta di questo o quel campione, da una tormenta che ha colpito il gruppo quel tal anno o dalla fuga non riuscita di quel tal corridore che … “il nome ce l’ho sulla punta della lingua …”.
Una realtà parallela, avulsa da caselli autostradali, fermate della metropolitana e raccordi anulari, dove un sentiero di montagna, usato da contadini valtellinesi per portare il bestiame al pascolo, può diventare un tempio pagano, “il Mortirolo”.
E chi ha visto “la carovana rosa” transitare sulla Portella Femmina Morta, difficilmente scorda che le salite, in Sicilia, si chiamano “portelle”, più facilmente che passi o colli; mentre se si é in Friuli, non è improbabile finire alle pendici di una “sella”, e andando verso ovest, di una ”forcola” o di una “forcella”.
Ecco: il “popolo rosa” che riempie quelle strade di provincia altrimenti anonime, che bivacca sulle rampe del Gavia armato di cibarie e bandieroni, non ha mai voltato le spalle.
Un idillio acritico come molti grandi amori, che rifugge i retropensieri e tuttavia (o forse proprio per questo) resiste al tempo e non mostra cedimenti.
Il Giro d’Italia del 1961, centesimo anniversario dell’Unità d’Italia, partì da Torino. Quello dei Cinquecento anni dalla scoperta dell’America (1992) da Genova. Quello del Giubileo 2000 da Piazza San Pietro. Quello dell’adozione dell’Euro (2002) dall’Olanda. Quello dei duecento anni dalla nascita di Garibaldi (2007), da Caprera.
La gente del Giro non teme la retorica e nemmeno la pacchianeria: non ha pudore di manifestare i propri sentimenti, si nutre di un entusiasmo senza malizia.
E’ un miracolo che si riproduce a scadenza annuale, come la liquefazione del sangue di San Gennaro. Sarà l’illusione di replicare le emozioni in bianco e nero degli anni del ciclismo eroico, o la fame di eventi, di riti collettivi: forse solo la speranza di rivedersi la sera, inquadrato dalla TV.
Il segreto di questo successo é in fondo il medesimo delle innumerevoli sagre di paese di cui è tappezzata la Penisola : divertimento genuino a prezzi modici, odore acre di spiedini e nostalgia per un’Italia un po’ casereccia.
Pochi anni fa un tizio venne piantato dalla moglie perché un’impertinente telecamera al seguito della corsa, lo riprese in diretta mentre amoreggiava con l’amante, su una spiaggia adiacente al traguardo. Sembra la versione da fotoromanzo della canzone di De Gregori, quella del bandito arrestato mentre assisteva alla gara del suo compaesano Girardengo.
Non si può mancare, quando passa il Giro. E’ come se il Papa fosse in visita pastorale nella tua città: bisogna esserci, anche se non si é credenti.
Ed esserci con animo sereno e festoso. Perché non é, si badi bene, come nel calcio: qui non si insulta, non si fischia, non si sfotte. Questa non é una zona franca dove smettere i panni del padre di famiglia per trasformarsi in ultras indemoniati.
Si applaude tutti, dal primo all’ultimo. Chi va veramente piano, ma merita comunque rispetto. Chi va il giusto, e si guadagna ammirazione e gloria. E chi va sin troppo forte, e magari la passa liscia perché la voglia di non rovinare la festa viene, troppo spesso, prima di tutto.
Così è, se vi pare, l’Italia del Giro. Così sarà, a maggior ragione, il Giro del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.