martedì 20 marzo 2012

Le capitali e lo sport

Roma caput mundi? Non certo nello sport. Il recente fallimento della candidatura olimpica ha riportato alla luce il contraddittorio rapporto fra la Città Eterna e lo sport.

Capitale un tempo di un immenso impero (quando ci si appassionava a battaglie fra gladiatori e corse delle bighe) e in seguito di uno Stato dallo sgangherato presente, inimitabile commistione di sacro (Città del Vaticano) e profano (dall’epoca della Dolce Vita agli shopping compulsivi in via Condotti), meta turistica mai demodé e set cinematografico a cielo aperto.

Sportivamente parlando, tutt’al più una piacevole e apprezzata padrona di casa. Una Olimpiade (1960), Mondiali di nuoto (1994 e 2009), atletica leggera (1987), nonché della finale di 2 Mondiali di pallavolo (1978 e 2010) e di uno di calcio (1990).

Annualmente di un torneo di tennis, quello del Foro Italico, tecnicamente vale meno di tanti altri, ma assai gradito dai protagonisti, per via dell’atmosfera glamour che lo contraddistingue, e delle partite del “Sei Nazioni” di rugby, che porta orde di appassionati della palla ovale dalle antiche Britannia e Gallia, sempre entusiasti dell’accoglienza della “Città Eterna”.

Per il resto, il clou della stagione sportiva romana é, lo sanno anche i sanpietrini di Piazza Navona, il derby fra Roma e Lazio, che consacra idoli e emette condanne senza appello a prescindere dalla reale consistenza (leggi posizioni in classifica a fine anno, non sempre entusiasmanti) delle due contendenti.

Il fatto é che in riva al Tevere si é di bocca buona, e non solo in senso culinario. Lo sport appassiona sì, ma se di un certo livello e condito da quel cocktail di internazionalità e mondanità Se no, tanto vale farsi prendere dalle beghe di cortile, moderne riedizioni della disfida fra Oriazi contro Curiazi.

Il risultato inevitabile é che la nostra capitale arranca vistosamente anche a livello nazionale quanto ad affermazioni in campo sportivo.

5 scudetti nel calcio (3 con la Roma, 2 con la Lazio), ne fanno la sesta città d’Italia, in un’ipotetica graduatoria, dietro Milano, Torino, Genova, Bologna e persino Vercelli, grande mattatrice dell’età pionieristica con 7 campionati fra il 1908 e il 1922.

5 titoli anche nel basket (l’ultimo nel 1983, gli altri nell’anteguerra…), 2 nella pallavolo (contro i 22 di Modena!) e 9 nel rugby: tutti fra gli anni ’30 e ’60, quando la palla ovale dalle nostre parti era roba per pochi intimi.

Fallito il progetto di costruire un circuito automobilistico cittadino all’EUR, il Gran Premio d’Italia si svolge da sempre a Monza, nell’hinterland milanese.

Ed é sempre il capoluogo meneghino ad ospitare, salvo rare eccezioni, l’arrivo del Giro d’Italia, che é forse l’espressione più compiuta, in ambito sportivo, dell’unità nazionale di un Paese, e spetterebbe quasi di diritto (si veda il Tour de France o la Vuelta Espana) alla capitale amministrativa.

Se Bologna é da tempo ribattezzata “basket city”, rugby e pallavolo hanno spesso preso la strada della provincia: preferibilmente veneta la palla ovale, il più delle volte emiliana il volley.

A conti fatti, incoronata Milano capitale sportiva ad honorem, Roma paga dazio quantomeno nei confronti di Torino, Bologna e di una realtà sui generis come Treviso, che sotto l’ala protettrice di una multinazionale come la Benetton, ha fatto incetta dagli anni ’80 in poi di scudetti nel basket, nella pallavolo e nel rugby.

La curiosa situazione defilata, tutt’al più da provinciale di lusso, di Roma, suggerisce un’analisi a 360 gradi sul rapporto fra le capitali nazionali e lo sport.

Il risultato che ne scaturisce, in parte consolante per il capoluogo laziale, é che non siamo per nulla di fronte a un caso isolato.

Intendiamoci: la regola é che, laddove la capitale amministrativa coincida con quella economica (cosa che non accade per esempio negli USA con Washington, in Brasile con Brasilia, o in Australia con Canberra), lì si concentrino i club più titolati e gli eventi più importanti. E lì, periferie ipertrofiche comprese, é più probabile vengano alla luce i campioni più affermati, se non altro per questioni statistiche (le capitali sono solitamente le città più popolose).

A questa macrocategoria appartengono senza tanti giri di parole Mosca, Atene, Buenos Aires, Vienna, Tokyo.

Emblematico il caso di Buenos Aires, dove ovviamente il calcio fa la voce grossa. Quella appena partita é la prima edizione del Campionato Argentino senza il River Plate, la squadra più amata della capitale, insieme al Boca Juniors, sciaguratamente retrocessa in Serie B.

Eppure delle 20 squadre al via, ben 7 sono di Baires. Non male, ma la cosa assume proporzioni ancora più imponenti se si pensa che delle restanti 13, otto hanno sede a La Plata, Avellaneda, Lanus (luogo di nascita di Maradona), Quilmes, Sarandì e Banfield: formalmente municipalità a sé stanti, in realtà sobborghi facenti parte integrante della grande area metropolitana di Buenos Aires.

Insomma, 15 su 20. Un record che fa storia a sé? Tutt’altro. Basta attraversare il Rio de la Plata, per vederlo superare dal Campionato Uruguaiano, dove 15 squadre su 16 (sic!) sono di Montevideo.

Venendo all’Europa, l’Oscar del centralismo spetta a Mosca.

Nel calcio deve limitarsi ad una leadership interna, con i vari Dinamo, Spartak, CSKA e Torpedo. Qui la Dinamo Kiev é stata l’unica seria avversaria degli squadroni della capitale fintanto che si é parlato di URSS, mentre il post comunismo ha portato alla ribalta realtà come lo Zenit San Pietroburgo e i tartari del Rubin Kazan.

In altri sport invece (diciamo quelli “olimpici”, tradizionalmente sovvenzionati dal Regime Comunista), il dominio è totale anche in campo europeo.

Il CSKA ha vinto 20 Coppa dei Campioni nell’hockey su ghiaccio (di cui 13 consecutive!), 6 nel basket maschile, 13 nella pallavolo maschile e 4 in quella femminile, dove é stato superato dalla Dinamo con 10 affermazioni.

A questo punto, snocciolata una cospicua serie di dati, é d’uopo fermarsi e fare un’analisi più attenta.

Nei Paesi dell’ex-blocco comunista l’attività sportiva era sotto l’egida di enti e organismi statali (i vari CSKA facevano capo all’esercito, le Dinamo ai Ministeri dell’Interno, le Lokomotiv alle Ferrovie dello Stato, e via dicendo).

Ovvio che le società sportive loro emanazione avessero sede nella capitale e che in una logica non certo di libero mercato fossero agevolate nell’arruolamento degli atleti migliori. Altrettanto comprensibile che l’onda lunga di questa strutturazione si sia trascinata fino ai giorni nostri, anche ora che restano solo le macerie di quella realtà.

Altro aspetto caratteristico dell’organizzazione dei Paesi comunisti era la presenza delle “Società Polisportive”.

Dietro a una capitale “dominante” c’é molto spesso la forza di colossi che hanno prevedibilmente nella sezione calcistica la branca più seguita dai tifosi, ma che sono comunque in grado di primeggiare in più sport.

Questo vale anche nell’Europa occidentale.

Basti pensare ad Atene, con Panathinaikos, Olympiakos (che sarebbe del Pireo, in pratica il porto di Atene) e in misura minore AEK a far man bassa di titoli nazionali negli sport di squadra, con punte d’eccellenza internazionale nel basket (6 Euroleghe per il Panathinaikos, 1 per l’Olympiakos).

O a Lisbona, dove i biancorossi del Benfica hanno mietuto successi in tutti gli sport di squadra, compresi il calcio (chi non ricorda il Benfica di Eusebio…) e l’ hockey su pista in cui i lusitani sono una potenza, senza trascurare le storiche sezioni dedicate ad atletica, ciclismo e nuoto.

Situazione simile, ma con non poche anomalie, in Spagna: in pratica una nazione bicefala, sportivamente parlando e non solo.

Madrid vive di calcio e in misura minore di basket, e in entrambi i casi dello strapotere della gloriosa Polisportiva Real Madrid.

9 Coppe Campioni (o Champions League) nel calcio, 8 Coppe Campioni (o Eurolega che dir si voglia) nel basket ne fanno il club più titolato d’Europa, ma in ambedue le discipline gli ultimi anni si sono rivelati avari di soddisfazioni, se misurati con i successi degli eterni e acerrimi rivali del Barcellona.

Per un tifoso del Real il vero derby é sempre e solo quello col Barça, nonostante nella capitale iberica vi sia un’altra validissima squadra di calcio, l’Atletico Madrid (più le piccole Getafe e Rayo Vallecano), nonché una team di consolidata tradizione nel basket come l’Estudiantes (e da pochi anni il Fuenlabrada).

Madrid ha dato i Natali al 3 volte vincitore del Tour de France, Alberto Contador, ma il capoluogo catalano replica con l’ossatura delle Nazionali di calcio (Iniesta, Xavi e via dicendo) e basket (i fratelli Gasol e Navarro), entrambe campionesse europee e mondiali in carica, oltre al motociclista Pedrosa.

Barcellona ha i suoi Gran Premi di Formula Uno e MotoGP, ma lo smacco più bruciante all’odiata capitale lo ha inflitto senza ombra di dubbio nel 1992, quando ospitò la prima e sinora unica Olimpiade assegnata alla Spagna.

Londra merita un approfondimento a parte, e sarà oggetto di uno specifico articolo di prossima pubblicazione.

Per ora limitiamoci a dire che la capitale inglese si appresta ad battere un record che più storico non si può: quello di essere, nel 2012, la prima città ad ospitare per la terza volta un’Olimpiade, dopo quelle del 1908 e del 1948.

Per il resto vanta il torneo di tennis più famoso del mondo (Wimbledon) e tutta una teoria di club di football e rugby, gli sport più in voga all’ombra del Big Ben, dalle più svariate tradizioni e carature.

Eppure le squadre più titolate in campo rugbystico risultano essere il Bath, elegante centro termale di neanche 100.000 abitanti, e i Leicester Tigers, team della capitale del Leicestershire, poco meno di 300.000 abitanti.

Nel calcio, nonostante l’indubbio peso specifico di storici club londinesi come Arsenal, Chelsea o Tottenham, basti constatare come 4 squadre inglesi si siano sinora issate sul tetto d’Europa: una di Manchester, una di Liverpool, una di Birmingham e una di Nottingham: e nessuna di Londra.

Con la capitale inglese apriamo così il capitolo delle eccezioni che fanno compagnia a Roma.

Il caso che balza subito all’occhio é quello di Parigi.

La città della Rivoluzione Francese, che proietta l’Europa verso l’Età Contemporanea, degli Impressionisti che scardinarono le regole della pittura, della Belle Epoque, degli Esistenzialisti e della “haute couture”.

Parigi che é capitale del proprio Stato molto più di quanto non lo siano tante altre capitali: perché di là dalle Alpi o si è parigini (che sono un quinto, banlieue compresa, dei francesi tutti), o si viene dalla provincia tout court.

Ebbene: la “Ville Lumière” ha un rapporto a dir poco tormentato con lo sport.

La società calcistica più titolata é il Paris Saint Germain, 2 scudetti e una Coppa delle Coppe. Nato in epoca relativamente recente (1970) e riportato in auge quest’estate dai petrodollari dell’emiro Tamim Al Thani (e dall’arrivo del reprobo milanista/interista Leonardo), ha peraltro vissuto lunghi periodi di vacche magre.

A questo si aggiunge lo scudetto del Racing Club nel lontano 1936.

Ora: 3 scudetti collocano Parigi al pari di Lilla (225.000 abitanti) e dietro a Saint-Etienne (capofila con 10 titoli), Marsiglia, Nantes, Lione, il Principato di Monaco (c’é anche quello…), Bordeaux, Reims e Nizza.

Il già citato Racing Club é sprofondato nelle serie dilettantistiche, al pari del Red Star, fondato da Jules Rimet (l’inventore della Coppa del Mondo) e dello Stade Français, prima squadra allenata da Helenio Herrera.

Proviamo col rugby, sport molto amato (forse ancor più del calcio) dai nostri cugini d’Oltralpe.

Qui va un po’ meglio. Stade Français (13 titoli) e Racing Club (5) vantano una tradizione secolare. In epoca recente tuttavia i campionati hanno più spesso preso la via di Tolosa (leader con 18 successi), Clermont Ferrand e Perpignan, mentre 3 degli ultimi 10 tornei li ha vinti il Biarritz, località balneare al confine coi Paesi Baschi. Ergo, provincia anche qui: e del Sud a ridosso della Spagna, in particolare.

Aggiungiamoci che la squadra più titolata del basket francese é il Pau-Orthez, fino al 1989 semplicemente Orthez, paesino di 10.000 anime ai piedi dei Pirenei, fusosi per esigenze logistiche con Pau (85.000, avessi detto New York …), il quadro é decisamente esaustivo.

A snocciolare questi dati, parrebbe che dai tempi dei quadri di Renoir, Monet, Seurat, il tempo non sia mai fermato. Che a Parigi e dintorni nel fine settimana si faccia di tutto tranne che andare a vedere partite di qualsivoglia sport: un pic-nic a Bois de Boulogne, una visita al Louvre, un aperitivo a Montmartre, un concerto all’Opera.

Del resto fino ai Mondiali di calcio del 1998, che portarono alla costruzione dell’avveniristico e polifunzionale “Stade de France” (81.000 posti), i due impianti più capienti erano i tutto sommato angusti, per una megalopoli, Parco dei Principi (44.000) e Stade de Colombes, che dai 63.000 posti iniziali é via via sceso ai 14.000 di oggi.

Anche l’altezzosa capitale transalpina pare quindi risvegliarsi una tantum, e solo per avvenimenti degni del suo lignaggio. Olimpiadi (1900 e 1924), Mondiali di calcio (1938 e 1998) o di rugby (2007).

Annualmente possiamo citare il “Prix d’Amerique” di trotto in gennaio, e il torneo tennistico del “Roland Garros” a giugno, pienamente in sintonia con l’atmosfera vagamente snob che si respira all’ombra della Tour Eiffel.

Stringi stringi, il clou del calendario sportivo parigino potrebbe considerarsi l’ultima tappa del Tour de France, l’avvenimento più amato dai nostri cugini d’Oltralpe.

Ma per onestà intellettuale va detto che il tradizionale arrivo sui Campi Elisi e le premiazioni con l’Arco di Trionfo sullo sfondo, sono nient’altro che una passerella: certo molto suggestiva, suggello tuttavia di una competizione che consuma il suo pathos agonistico in tre settimane su strade di campagna e di montagna, fra tifosi accampati in tende e camper, campi di grano che diventano lavagne per inneggiare ai corridori e animali da allevamento che scorrazzano terrorizzati dalla presenza di visitatori sconosciuti.

Insomma: il Tour si vince sporcandosi di fango in provincia, a Parigi si va in smoking solo per riscuotere il premio.

Passiamo a Berlino, che, detto per inciso, non ci ha guadagnato molto (sportivamente parlando, ci mancherebbe), dal crollo del celeberrimo muro.

La capitale tedesca vive una situazione del tutto analoga a Roma, con una città (Monaco, da noi Milano), a sconfessare quella che é la leadership politica.

Due le Olimpiadi assegnate sinora alla Germania: una a Berlino (1936), una al capoluogo bavarese (1972). Entrambe peraltro tristemente passate alla storia: per l’autocelebrazione nazista la prima, per il sanguinoso attentato la seconda.

Due Mondiali di calcio: il primo con atto conclusivo a Monaco (1974), il secondo a Berlino (2006).

Uno a te, uno a me, in sintesi.

La squadra di calcio più amata é l’Hertha, tornato quest’anno in Bundesliga dopo una anno di purgatorio nella serie cadetta.

2 titoli tedeschi, nel 1930 e 1931, più 2 del Viktoria (1908 e 1911) e uno del Blau-Weiss (1905). Nel dopoguerra solo campionati della Germania Est (16 in tutto), sulla cui attendibilità, l’abbiamo vista nell’articolo sul calcio d’Oltrecortina, é tuttavia lecito dubitare.

Messi insieme, fra titoli conquistati in Età Prussiana, Repubblica di Weimar, Terzo Reich e DDR, farebbero 21 campionati: comunque uno in meno di quelli conquistati dal Bayern Monaco, dagli anni ’60 in poi…

Per il resto nel basket la fa da padrone l’Alba Berlino, ma si tratta di un torneo di limitato spessore internazionale (in generale i tedeschi non investono granché in sport di squadra che non siano il calcio).

Grande é invece l’amore per l’atletica leggera, prima e dopo la caduta del Muro. La prova é stata per anni il Meeting di Berlino, uno dei più importanti del pianeta, che tuttavia é uscito a partire dal 2010 dalla Diamond League, in pratica la Serie A dell’atletica internazionale.

In Svizzera, Berna si coccola il ciclista Fabian Cancellara, ma nel calcio è dietro a Zurigo, Ginevra e Basilea. Del resto, se la barca Alinghi (2 Coppe America) scorazza tutt’al più nelle acque placide del Lago Lemano, é altrettanto evidente che in una nazione che trepida per gli sport invernali, le vere “capitali” siano le località montane, da Sankt-Moritz a Davos, da Wengen a Crans Montana.

In Israele, dove va per la maggiore il basket, Tel Aviv (il centro economico più importante) ha vinto 54 campionati su 57, lasciando a bocca asciutta la capitale Gerusalemme, che resta comunque la città più popolosa. Un po’ meglio nel calcio, con 6 titoli per il Beitar Gerusalemme, ma a farla da padrona è sempre Tel Aviv (31) davanti ad Haifa (13).

Chiudiamo con uno sguardo oltreoceano, nei grandi Stati Uniti d’America.

Abbiamo già accennato come Washington sia esclusivamente una capitale amministrativa, sede degli organi istituzionali e dell’apparato burocratico ad essi connesso.

In effetti la bacheca della città della Casa Bianca é alquanto spoglia.

Fiore all’occhiello il football, con 5 titoli per i Washington Red Skins. Per il resto un titolo nel basket con i Washington Bullets (nel lontano 1978) e uno nel baseball con i Washington Senators (ve la immaginate una squadra di Roma chiamarsi “Deputati Roma”?).

Proviamo allora a prendere in esame quella che é da considerarsi la capitale economica e morale degli USA, ossia New York. Economica, perché sede di Wall Street, fulcro dell’economia a stelle e strisce. Morale, perché lì c’è la Statua della Libertà, simbolo americano per eccellenza, e lì hanno agito i terroristi nel 2001 quando hanno voluto colpire al cuore l’America.

I risultati sono contradditori. Prendendo in esame i 4 sport più amati dagli americani (baseball, basket, football americano e hockey su ghiaccio), New York ne esce ampiamente vincitrice con 53 titoli, seguita a debita distanza da Boston (32) e Detroit (22).

La distribuzione, tuttavia, é alquanto diseguale.

Rullo compressore nel baseball con 34 campionati (27 con gli Yankees, 5 con i Giants e 2 con i Mets).

Ad alto livello, ma non città leader, nell’hockey (10 titoli mettendoci anche i 2 del sobborgo Newark), e nel football (7), dove la capofila è, assoluta anomalia nel contesto statunitense che antepone il bacino d’utenza ai meriti sportivi, la piccola Green Bay (100.000 abitanti), cittadina del Wisconsin che si affaccia sul Lago Michigan.

Cenerentola nel basket, dove insegue un titolo che manca dal 1973 (i New York Knicks ne vinsero un altro nel 1970), a distanza siderale dai 17 dei “vicini” di Boston.

La “Grande Mela” ha la maratona più famosa del Mondo, ma nonostante la sua spiccata dimensione esterofila (è sede delle Nazioni Unite), manca del riconoscimento olimpico.

La prima Olimpiade su suolo americano si disputò nel 1904 a Saint Louis, e fu ridotta ad una sorta di fiera paesana. Poi due volte Los Angeles (1932 e 1984) e infine Atlanta (1996): o per meglio dire, “Coca Cola city”.

Che conclusione trarre, alla fine di questa lunga panoramica?

Beh, che grande é bello, in linea di massima. Ma non sempre.

La grande città rende talvolta consueto ciò che in provincia può diventare un avvenimento epocale, e catalizzare le passioni di una intera comunità. Meglio uno stadio da 10.000 posti, pieno e ribollente di un tifo consapevole in cuor suo che “chissà quando ci ricapita un’occasione così…”, piuttosto che uno da 80.000 che si riempie solo nelle grandi occasioni, con un pubblico assuefatto a certi risultati al punto da ritenerli scontati.

Ma forse non é neanche questo il punto. Perché raramente si tratta di meteore: la francese Orthez nel basket, l’inglese Bath nel rugby o la nostra Modena nella pallavolo sono lì a dimostrarlo.

Questione di tradizione, di organizzazione ben oliata, di un processo di identificazione nei colori sociali che più facilmente attecchisce in realtà meno dispersive. E se é vero com’é vero che queste società sono nate in un’epoca semi-dilettantistica in cui i costi di gestione erano ridotti, in un sistema come quello attuale, dove gli incassi da stadio (o palazzetto) sono briciole rispetto a quanto incassato dai diritti televisivi, avere un seguito ridotto sugli spalti risulta penalizzante fino a un certo punto.

Ci sono poi i casi di Milano, Barcellona, Monaco di Baviera o Manchester: città operose ed economicamente floride, che hanno tutte le carte in regola per insidiare la potenza della capitale e lanciarle il guanto di sfida, con implicazioni spesso dichiaratamente politiche (si pensi a Barcellona e l’indipendentismo catalano, e in misura minore a Milano e ai venti di secessione di matrice leghista).

Quel che é certo, è che le eccezioni citate (Roma, Parigi, Berlino, Gerusalemme, in parte Londra e New York) non possono considerarsi casuali.

Si parla di patrimoni dell’Umanità tutta: cardini della storia politica, economica e religiosa mondiale, spesso epicentri di rivoluzioni epocali in campo sociale e culturale.

Sembrerebbe che città così onuste di storia, sature di opportunità di svago e invase quotidianamente da turisti di tutto il mondo, non abbiano tempo per appassionarsi a vicende sportive

Forse è il cosmopolitismo, più che le dimensioni, il cuore della questione.

Perché la passione sportiva si basa su un processo di fideizzazione che segue regole precise. Si crea domenica dopo domenica, nella buona e nella cattiva sorte, (anzi, nella cattiva ancor di più), e cresce esponenzialmente quando si appoggia su altri elementi fortemente identitari. Appartenenza etnica (spiccata la vocazione sportiva dei Baschi), politica (i tifosi della Lazio sono di destra, quelli del Livorno di sinistra), sociale (i tifosi del Manchester City che rivendicano la loro appartenenza alla working class rispetto ai cugini dello United) e financo religiosa (il sanguinoso derby di Glasgow fra i cattolici del Celtic e i protestanti dei Rangers).

La varietà di scelta non aiuta tutto questo: prendete certi centri (magari del Meridione), dove le opportunità di aggregazione ed evasione dalla realtà quotidiana scarseggiano, e la squadra di calcio o di pallavolo si presenta come una piccola ancora di salvezza. Magari, se vi capita, chiedete a un casertano cosa ha significato vincere lo scudetto del basket nel 1991, con la squadra fatta per tre quarti di “scugnizzi” del posto.

E non é un caso che certe metropoli “universali” vedano esplodere il sacro fuoco della passione sportiva (si pensi alla rivalità calcistica fra Roma e Lazio), nel momento in cui dismettono la loro vocazione globale per appropriarsi di una dimensione “borgatara”, forse più angusta ma certamente più viscerale.

Del resto la quintessenza di quel virus agonistico che pervade qualsiasi tifoso, risiede un centinaio di chilometri più a Nord della nostra capitale.

Siena: 54.000 abitanti (più o meno la metà di un arrondissement, alias quartiere, di Parigi). Un Palio celeberrimo in cui 17 contrade, una ogni 3.000 abitanti (oggi, molti meno nel Medioevo…), si danno battaglia con un impeto che sfugge a qualsiasi criterio logico.

Inconcepibile nell’era del Villaggio Globale? Decisamente, e per ciò irresistibile.





















mercoledì 21 settembre 2011

Eto'o e i suoi antenati: i grandi addii

Se proprio certe disgrazie devono capitare, meglio che accadano a chi ci ha già fatto il callo.
Per un malato di tifo (calcistico, s’intende) non é facile assistere alla dipartita del proprio idolo alla volta della steppa e di un paese dal nome degno di un romanzo di Tolkien. A fare il giullare di corte di un enigmatico parvenu post-sovietico, dall’inquietante passato e dall’opulento presente.
Il tifoso interista, tuttavia, ne ha viste di cotte e di crude negli ultimi anni, e ha imparato a metabolizzare.
Lo stesso Samuel Eto’o, a ben vedere, era stato chiamato a sostituire (e all’epoca non pochi torsero il naso) il grande Zlatan Ibrahimovic, poi caduto vittima di misteriose crisi intestinali, leggasi mal di pancia per lo scarso appeal internazionale dei nerazzurri.
Ma quando uno ha visto partire come un fuggiasco (estate 2002), senza un grazie, senza un mi dispiace, il Fenomeno Ronaldo, venerato nella sua indimenticabile stagione d’oro (campionato 1997/98) e poi amorevolmente accudito come un figlio moribondo durante l’interminabile degenza, la sindrome da abbandono gli fa un baffo.
Che la gratitudine non sia di questo mondo, Massimo Moratti l’aveva capito per tempo. Come dimenticare la fuga, peraltro ben meno dolorosa, del nigeriano Nwankwo Kanu, acquistato dall’Ajax nel 1996 con le stimmate del futuro campione, prima che gli venisse riscontrata una misteriosa anomalia cardiaca. Curato per un anno intero a spese dell’Internazionale Football Club, fa in tempo a giocare mezza stagione in nerazzurro, prima di fuggire destinazione Arsenal, dove solo in parte mantiene fede alle promesse giovanili.
Del resto ha  vestito la maglia nerazzurra il “traditore” per eccellenza del nuovo millennio, Luis Figo, passato dal Barcellona agli odiati rivali del Real Madrid.
E’ il 2000 e sulle reti Mediaset imperversa come opinionista Arrigo Sacchi (e il suo alter ego Maurizio Crozza a “Mai dire goal”). I quali tessono le lodi del calcio spagnolo, l’uno con aria sentenziosa l’altro con fare canzonatorio, additandolo a emblema di sportività e fair-play, in palese e polemica contrapposizione col triviale football nostrano.
Questo fino a quando gli inferociti tifosi catalani, in un indimenticabile Barça-Real in quel di Barcellona, non lanciano alla volta del loro ex-beniamino, intento  a battere un calcio d’angolo, una testa di maiale grondante sangue, messaggio minatorio-mafioseggiante mutuato da “Il padrino” (ma lì la testa era di un cavallo …).
Tutto il mondo é paese, insomma. E del resto, proverbio per proverbio, se Atene (vedi Inter) piange, Sparta (Milan) non ride.
Gli addii di Andryi Shevchenko (2006) e Kakà (2008) sono stati digeriti rapidamente più che altro in virtù del repentino e non preventivabile declino dei due fuoriclasse. Ma sul momento provocano vere scene d’isteria collettiva nell’imperturbabile capitale meneghina.
L’ucraino Sheva, faccia da bravo ragazzo cresciuto nell’Urss ormai prossima allo sfaldamento, parte per Londra, sedotto dal magnate russo Abramovich, con il precipuo scopo (ipse dixit) di agevolare l’apprendimento della lingua inglese da parte dei figli.
Missione compiuta: lui diventa pure un buon giocatore di golf, ma del micidiale attaccante che squarciava le difese di mezza Europa neanche l’ombra.
E così il temporaneo ritorno in prestito a Milano, nell’estremo tentativo di ritrovare lo smalto di un tempo, non si rivela altro che una parentesi straziante per tutti: nessun rimpianto, nessuna lacrima viene versata per il secondo addio dell’ucraino ai rossoneri.
Ma Shevchenko andava già per i trent’anni. Kakà, faccia d’angelo pure lui e devoto a Nostro Signore come una perpetua di campagna, pare invece al top della carriera, quando lascia Milano travolto da una pioggia di euro elargiti dal palazzinaro spagnolo Florentino Perez.
I primi due anni di Kakà al Real Madrid sono stati sinora un pianto, e certi problemi fisici timidamente emersi nell’ultimo periodo milanista sono esplosi in terra spagnola, al punto da far sospettare che dietro i dispiaceri di prammatica si celasse in Galliani e compagnia la segreta speranza di aver rifilato agli iberici una colossale fregatura.
Abbiamo finora citato vicende alquanto recenti. Un po’ perché, é chiaro, la memoria a breve termine viene più facilmente in soccorso in questi casi. E un po’ perché la vorticosa girandola di carne umana che sta diventando il calciomercato negli ultimi anni, agevola sempre più situazioni simili, laceranti per i tifosi quanto remunerative per i diretti interessati.
Si fa più fatica andando indietro con gli anni, quando cambiare casacca era meno frequente e i trasferimenti fra club divisi da accese rivalità rimanevano veri e propri tabù.
Tutto in fondo ebbe inizio nel 1913. Il milanista Renzo De Vecchi, ha diciannove anni ma gioca in Nazionale da quando ne ha sedici: é soprannominato “il figlio di Dio” e non credo ci sia altro da aggiungere.
Milanese doc, é già una bandiera rossonera (e un personaggio di notevole impatto mediatico, si direbbe oggi), quando dal Genoa, la squadra più forte del momento, arriva una proposta irrinunciabile.
Oddio, una proposta che oggigiorno non indurrebbe nemmeno un giocatore di serie C ad alzare la cornetta del telefono: ma assolutamente indecente per l’epoca.
Trattasi, ebbene sì, di un posto in banca alla Comit di Genova, disposta a offrire, in tacito accordo coi “Grifoni”, uno stipendio ben superiore a quello che “il figlio di Dio” percepiva da impiegato (il professionismo era ancora di là da venire …) alla Banca di Milano.
Con lui, per inciso, arrivano anche tali Sardi e Santamaria (entrambi dai vicini dell’Andrea Doria), beccati tuttavia in flagrante a riscuotere un cospicuo assegno elargito dal Genoa, in palese violazione delle  puerili norme sul dilettantismo vigenti nell’epoca pionieristica (passi offrire posti di lavoro, ma soldi neanche a parlarne!!), e pertanto squalificati con ignominia.
De Vecchi fa giusto in tempo a dare un saggio della sua classe vincendo insieme ai riabilitati Sardi e Santamaria lo scudetto nel 1915, per riallacciare il discorso dopo la Prima Guerra Mondiale e portare i genovesi al successo nei campionati del 1923 e del 1924.
Ma la casistica é alquanto variegata e interessante, e per un motivo molto semplice: a differenza di oggi, non si divorziava solo per questioni di vil denaro.
Ci sono stati addii carichi di rancore.
Dall’Argentina con livore, l’addio dell’iracondo per antonomasia Omar Sivori (battezzato non a caso “il testone”), si consuma in pratica in due tranches.
Protagonista assoluto con il gigante buono Charles (gemello inseparabile come Arnold Schwarzenegger lo era di Danny De Vito nel famoso film) della meravigliosa Juventus a cavallo fra i ’50 e i ‘60, porta a casa tre scudetti e un Pallone d’Oro.
Ineguagliato amore calcistico dell’Avvocato (almeno fino all’avvento di Platini), lascia Torino, e non certo per sua scelta, nel 1965: in apparente fase calante e dopo qualche bizza di troppo.
Grande architetto dell’operazione, l’allenatore paraguaiano Heriberto Herrera, inflessibile nei rapporti coi giocatori e fautore di quel calcio iper-atletico e votato agli schemi che esploderà dagli anni ’70 in poi.
Così Sivori sbarca a Napoli, dove libero da pressioni d’alta classifica e travolto dalla passione dei partenopei, vive una seconda giovinezza.
Ma il tarlo di quell’abbandono lo rode ancora, per tre lunghi anni. Ormai in rotta di collisione anche con l’ambiente napoletano, ritrova la Juventus, sempre in mano al sergente di ferro Herrera, il 1 dicembre 1968. All’ennesima provocazione del suo marcatore, Pierino Favalli, risponde da par suo: reazione inconsulta e cartellino rosso con  gigantesca zuffa incorporata.
Squalificato per sei giornate, esplode in conferenza stampa vomitando rabbia sulla Juve e sul suo nemico giurato.
Ormai abbandonato da tutti, decide di tornare in Argentina. Renato Cesarini, ex gloria juventina, gli offre un posto al River Plate, la squadra da dove aveva spiccato il volo, ma ormai non é più cosa: Omar Sivori lascia il calcio nel peggiore dei modi, a soli 33 anni.
Ci sono addii furtivi: talvolta in sintonia con il rapporto fugace di cui sanciscono la fine, talvolta del tutto inadeguati ad esso.
C’é un altro argentino, lo sappiamo bene, che ha infatti infiammato Napoli come e più di Sivori.
Ma Napoli e Diego Armando Maradona non si sono neanche salutati per l’ultima volta. Un amore tormentato e travolgente, finito un giorno qualsiasi, al termine di una partita che poteva essere come tante altre, Napoli-Bari, giornata 8 del girone di ritorno, stagione 1990/91.
Ed invece era l’ultima.
“El Pibe de Oro” era sbarcato all’ombra del Vesuvio sei anni e mezzo prima, nell’estate del 1984. Sei anni e mezzo vissuti pericolosamente, fra trionfi mai nemmeno sognati da una tifoseria vergine di successi, relazioni pericolose con la criminalità, liti, tradimenti e chi più ne ha più ne metta.
Il rapporto era ormai agli sgoccioli, lo si capiva. Con Napoli e con il calcio italiano tutto: come dimenticare l’”hijos de puta!!” urlato in faccia all’intero Stadio Olimpico che fischiava l’inno argentino, finale di Italia ’90.
Ma uno così, sia che lo si veda come proprio condottiero che come il più acerrimo dei nemici, merita un addio in pompa magna.
E invece il più grande calciatore mai visto nel nostro campionato esce di scena dalla porta di servizio, il 17 marzo 1991. Trovato positivo alla cocaina (vizio a lungo colpevolmente celato), Maradona se ne va da un giorno all’altro, per non tornare mai più a Napoli.
Abbiamo già citato i casi di Boyé e Martino, capostipiti di tutta una teoria di calciatori sudamericani fuggiti improvvisamente dal Belpaese causa un’incapacità cronica di adattamento.
A loro va affiancato il trio argentino composto da Enrique Guaita, Alejandro Scopelli e Andres Stagnaro. Che approdano alla Roma nel 1933 fra squilli di tromba, e di soppiatto se ne vanno due anni dopo.
Il fatto é che a quei tempi naturalizzare i calciatori sudamericani di discendenze italiane é la norma, soprattutto se di apprezzabile levatura. E se Stagnaro é un onesto mestierante e nulla più, Guaita e Scopelli sono due campioni.
Guaita é addirittura una colonna della squadra italiana che vince il Mondiale a Roma nel 1934, e diventa un eroe dell’Italia fascista.
Bello, essere accolti così affettuosamente dalla propria patria d’adozione. Ma quando agli onori si aggiungono gli oneri, leggasi imbracciare un fucile e partire per la Guerra d’Etiopia, ecco che tutto d’un tratto ti torna la nostalgia di casa.
E così i nostri tre eroi, che peraltro con ogni probabilità l’avrebbero sfangata comunque (i calciatori erano cittadini diversi dagli altri sin da allora …), il 19 settembre 1935 raggiungono (prima in auto poi in treno) Ventimiglia, da dove varcano nottetempo la frontiera francese, per infine imbarcarsi su un piroscafo destinazione Argentina.
In curioso e francamente inspiegabile parallelismo con i sudamericani, i calciatori inglesi si son resi spesso protagonisti di dipartite rocambolesche dal nostro Paese, che viceversa i loro connazionali paiono particolarmente apprezzare nella veste di turisti.
Come dimenticare il centravanti Jimmy Greaves, uno dei più prolifici bomber inglesi della storia.
Approda al Milan nell’estate del 1961 con qualcosa come 124 goal all’attivo nel Campionato inglese (e ha solo 21 anni …).
Con lui, però, arriva nel capoluogo lombardo anche un nuovo allenatore, Nereo Rocco. Uno che ha fatto faville in provincia, a Padova, a colpi di catenaccio e motti  dialettali, e che a occhio e croce non pare aver una gran dimestichezza con le étoile eccentriche e bizzose.
Greaves é un fuoriclasse in campo (9 goal in 12 partite), ma pure nel piantar grane. Si presenta in ritardo al raduno estivo e da lì sarà un’escalation di capricci, notti brave, sbronze colossali e plateali atti di insubordinazione.
Rocco, che condivide con il geniaccio inglese l’amore per gli alcolici (Jimmy per la birra, il “Paron” per il vino) e poco altro, si stanca in fretta.
E così a novembre il colpo a sensazione della campagna acquisti milanista é già su un aereo per Londra, con la ragguardevole media di un goal a partita e di una marachella al giorno. In patria continuerà a segnare goal a raffica, mentre Rocco, troverà nel suo sostituto, il vetusto e cerebrale brasiliano Dino Sani, l’uomo della provvidenza che gli farà vincere quel campionato: e  così, per una volta, tutti vissero felici e contenti.
Tornando a Nereo Rocco, ci sono addii che non sono addii.
Sulla scia di quello scudetto rocambolesco, infatti, il “Paron” vince l’anno seguente la Coppa dei Campioni (prima squadra italiana a riuscire nell’impresa), a Wembley contro il Benfica di Eusebio.
Sono due anni magici, conditi dalla scoppiettante rivalità col dirimpettaio interista, il “Mago” Helenio Herrera, altro grande istrione della panchina.
All’apice del successo, però, Rocco lascia.
In contemporanea col Presidente che l’aveva scelto, Angelo Rizzoli, e forse fiaccato dal tormentato rapporto col plenipotenziario rossonero Gipo Viani. L’amico-nemico di una vita, lo stratega con cui condivide (la questione é annosa e dibattuta) l’invenzione del “libero”, il quasi conterraneo con cui parla lo stesso dialetto (quello veneto) ma non sempre la stessa lingua.
Rocco va al Torino, che non é esattamente una fuoriserie, e lì vive in una sorta di semi-anonimato per quattro anni, funestato peraltro dalla tragica morte del giovane fuoriclasse Gigi Meroni.
Poi, nel 1967, il grande ritorno.
Rivera è più forte di quando l’aveva lasciato, ci sono ancora Trapattoni, Lodetti e Mora. E in più i fidi Roberto Rosato, ex Toro, e l’ormai stagionato Kurt Hamrin, suo vecchio pupillo ai tempi del Padova.
Il Rocco bis è un trionfo, meglio ancora della prima versione. Scudetto e Coppa delle Coppe il primo anno, poi la seconda Coppa dei Campioni e la conseguente Coppa Intercontinentale, (sfuggita sei anni prima), più un’altra Coppa delle Coppe nel 1973 e due Coppe Italia: alla faccia di chi dice che le minestre riscaldate risultano sempre insipide!
Ci sono invece addii che preludono a un ritorno, che a sua volta é l’anticamera di un nuovo tradimento.
Johan Crujff cresce a pane e Ajax. E’ infatti il figlio di una donna delle pulizie del club di Amsterdam, fino ad allora ai margini del calcio che conta, come del resto il football olandese in generale.
Ma con lui, Neeskens, Krol e il grande maestro Rinus Michels, l’Ajax arriva sul tetto del Mondo, praticando quel gioco post-moderno che passerà alla storia come “calcio totale”.
Nell’estate del 1973, alla vigilia della stagione che lo porterà a sfiorare la vittoria ai Mondiali con l’Olanda, Cruijff saluta la casa madre e passa per una cifra iperbolica al Barcellona (circa 2 milioni di dollari dell’epoca).
Dopo aver dato ampio sfoggio del suo talento in Catalogna, va a giocare anche in America (e sono altre montagne di dollari …). Infine, nel 1981, a trentaquattro anni suonati, torna al vecchio amore, l’Ajax, dove tanto per cambiare conquista altri due scudetti.
La perfetta chiusura di una carriera leggendaria? Neanche per sogno.
Perché a trentasei anni, ormai pallido ricordo del fuoriclasse che fu, Cruijff lascia la squadra nella quale é cresciuto, per approdare agli acerrimi rivali del Feyenoord (inutile dire che vince il campionato …). Perché infliggere una simile sofferenza ai propri tifosi, ora che il viale del tramonto é ormai imboccato? Beh qui a pensare che ci siano di mezzo dei sonanti bigliettoni  probabilmente non ci si sbaglia …  
Ci sono addii lì per lì lancinanti, e tuttavia ridimensionabili dall’evolversi degli eventi.
Quando Roberto Baggio, reduce dalle performances strepitose di Italia ’90, lascia la Fiorentina per raggiungere gli odiatissimi nemici della Juventus (e da quelle parti quando si odia qualcuno c’é poco da scherzare), tutta Firenze scende in piazza.
Lui, per ricomporre almeno in parte il dissidio, rinuncia a tirare un rigore contro la sua ex squadra, il giorno della sua prima partita da juventino allo Stadio Franchi.
Ma dopo la Juve arrivano il Milan, il Bologna, l’Inter, il Brescia. E si capisce che Baggio non é uno da fare la bandiera a vita, o il capopopolo, di qualsiasi popolo si tratti: é di tutti, di tutti quelli che amano il bel calcio.
Meglio così, avrà pensato qualcuno che Firenze che non aveva mai dimenticato: perché un conto é quando l’uomo della tua vita ti lascia per sposare la tua peggior nemica, un conto é quando scopri che il ragazzo è, per così dire, “farfallone” di natura …
Ci sono addii misteriosi e struggenti.
E’ assai nota la vicenda di Mathias Sindelar, sontuoso attaccante  dell’Austria Vienna, ai tempi (anni ’20-’30) in cui Vienna era una delle capitali del calcio mondiale.
Detto “Cartavelina” per il fisico sottile e filiforme, è il giocatore di maggior classe del Wunderteam, la Nazionale austriaca che contende in quegli anni all’Italia la leadership continentale.
Ma il 12 marzo 1938 il Wunderteam sparisce dal panorama calcistico internazionale: anzi, é l’Austria a sparire dalle cartine geografiche, annessa alla Germania Nazista.
Così i migliori calciatori austriaci accettano, loro malgrado, di vestire la maglia della Nazionale tedesca e, come facile immaginare, la rinforzano sensibilmente. Molti, ma non tutti. Non Sindelar e il suo compagno di club Karl Sesta.
Incerte e dibattute sono le origini ebree di Sindelar: del tutto comprovate lo sono invece quelle del Presidente dell’Austria Vienna Michl Schwarz, brutalmente defenestrato ma difeso a spada tratta dal suo giocatore più famoso.
Durante un’amichevole celebrativa dell’Anschluss (nella quale segnano proprio Sindelar e  Sesta), i due si rifiutano di salutare i gerarchi nazisti presenti in tribuna: è l’inizio della fine.
Karl Sesta finirà col cedere (indosserà la maglia della Germania, ma solo nel 1941). “Cartavelina”, invece se ne é già andato da un pezzo: trovato morto nel suo appartamento il 23 gennaio 1939 in compagnia di una ragazza italiana (una prostituta?) poche settimane dopo quella, a suo modo, storica partita. “Avvelenamento da monossido di carbonio”, la spiegazione ufficiale, che lascia tuttora aperte tutte le ipotesi.
Per certi versi simile la storia dell’ungherese Arpad Weisz. Arrivato in Italia negli anni ’20 come calciatore, dà il meglio di sé in panchina, dove si rivela un autentico maestro di calcio (scrive anche un apprezzatissimo manuale, “Il giuoco del calcio”).
E’ lui, imbeccato da Fulvio Bernardini, a far esordire nell’Inter, nell’agosto del 1927, il grande Giuseppe Meazza, allora diciassettenne.
Nella stagione 1929/30 (primo Campionato a girone unico) vince lo scudetto, sempre alla guida dei nerazzurri grazie anche ai 31 goal di Meazza.
Poi passa al Bologna. Quello che “tremare il mondo fa”, autentica corazzata costruita con passione dall’indimenticabile patron Renato Dall’Ara.
Sono due scudetti in due anni, e un “Torneo dell’Esposizione Universale di Parigi”, sorta di Champions League ante-litteram.
Finché una laconica e raggelante nota de “Il Resto del Carlino” del 26 ottobre 1938, annuncia l’approdo sulla panchina felsinea dell’austriaco Hermann Felsner (senza peraltro mai nominare Weisz): come se Guardiola si volatilizzasse un bel giorno e tutti a Barcellona voltassero la testa dall’altra parte.
Il fatto é che Arpad Weisz é ebreo. Insieme alla famiglia lascia in fretta e furia (è il gennaio del 1939) il nostro paese e si rifugia in Francia, poi in Olanda, dove allena per un po’ il Dordrecht. Poi i Nazisti  invadono anche i Paesi Bassi, e di Weisz si perdono le tracce.
La seconda parte della storia é, se possibile, ancora più incredibile e straziante. Perché neanche a guerra finita, nessuno, forse per la fretta di voltare pagina, forse per banale superficialità, si prende la briga di scoprire che fine abbia fatto l’allenatore più vincente della storia del Bologna.
Neanche il grande Enzo Biagi, che in un libro sulla storia del Bologna, racconta “era molto bravo, ma anche ebreo e chi sa come è finito”: solo supposizioni, brutti presentimenti.
Com’è finito lo scopre ai giorni nostri (cioè più di sessant’anni dopo!) un giornalista del “Guerin Sportivo”, Matteo Marani: Arpad Weisz é morto ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944, preceduto due anni prima dalla moglie e dai due figli nati in Italia.
Acerrimo rivale di Weisz è in quegli anni Carlo Carcano, nato a Varese ma piemontese d’adozione. Rivelatosi sulla panchina dell’Alessandria, dove lancia i futuri Campioni del Mondo “Giuanin” Ferrari e Gigi Bertolini, approda alla corte degli Agnelli nel 1930.
E’ la Juventus del “quinquennio”, dei cinque scudetti consecutivi. Ci sono i fedeli discepoli Ferrari e Bertolini, i fantastici oriundi Cesarini, Monti e Orsi, l’immarcescibile portiere Combi, il bomber Borel e l’indissolubile coppia di terzini “made in Piemonte” Rosetta/Caligaris.
Eppure, nell’albo d’oro che celebra quei cinque straordinari scudetti, Carcano compare nelle vesti di allenatore solo nei primi quattro. Viene infatti esonerato nel febbraio del 1935, con la squadra ben avviata a quello che sarà il quinto e ultimo titolo.
C’é da subito una cappa di omertà sull’argomento, che la stampa di Regime non si sogna certo di squarciare.
La verità, o almeno una versione plausibile, verrà fuori anche qui col tempo. Carcano avrebbe manifestato non meglio precisate tendenze omosessuali, ovviamente mal digerite dall’austera dirigenza bianconera, fino ad alcuni episodi, mai resi noti, che avrebbero coinvolto alcuni degli elementi più giovani della squadra.
In pieno Ventennio fascista, e in un ambiente già di per sé maschilista e conservatore, é sin troppo facile immaginare come la carriera ad alto livello di Carcano potesse considerarsi seduta stante conclusa.
Un’estemporanea esperienza al Genoa in B come vice di Renzo De Vecchi (quasi un atto di contrizione per un fuoriclasse della panchina come lui), e poi nulla fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Torna nel Dopoguerra, ma senza risultati degni di nota. Inter, Fiorentina, Atalanta e infine il primo amore, l’Alessandria: se ne esce così di scena, l’unico allenatore ad aver vinto quattro Campionati di serie A consecutivamente.
Con una piccola grande soddisfazione, che in parte rende giustizia del danno subito: quello di vedere il torneo per ragazzi da lui fondato con alcuni amici nel 1947, il “Carlin’s Boys” di Sanremo, diventare un punto di riferimento per tutto il calcio giovanile mondiale.
E ci sono, infine, addii che trasudano di dignità.
Come quello del grande Gigi Riva. Quinto moro ad honorem della bandiera sarda (lui che veniva dall’hinterland milanese), una vita calcistica e non solo votata al Cagliari e alla Sardegna, cui porta in dono uno scudetto e per i quali rinuncia a vagonate di trofei e quattrini. Saluta ad aprile del 1977, a 33 anni, infortunato per l’ennesima volta, con uno scarno comunicato:
“Non me la sento di ingannare il pubblico tornando sul campo in condizioni menomate. Avrei potuto farlo, ma preferisco che ricordino il Riva delle giornate migliori”.
Signori si nasce, diceva qualcuno.

lunedì 4 luglio 2011

Cent’anni (o quasi) di Copa America

E’ nata 44 anni prima del suo corrispettivo europeo, ed ha anticipato di 14 il  primo Campionato del Mondo.
Non ha nulla in comune con la quasi omonima manifestazione velica (quella di Luna Rossa, Cino Ricci & C.), se non la straordinaria longevità.
E’ la “Copa America” ( rigorosamente con una “p” sola), massima rassegna calcistica per nazionali del continente scoperto da Cristoforo Colombo: di quella parte di America che sta dal Canale di Panama in giù, per essere precisi, in barba al nome che vorrebbe abbracciare anche Caraibi, Messico e Nord America.
In effetti la denominazione “Copa America” é relativamente recente (1975), posto che sino ad allora si é parlato più propriamente di “Campeonato Sudamericano de Selecciones”.
Quel che é certo é che si tratta di un unicum del football mondiale: caratterizzatosi per un andamento a dir poco schizofrenico, in ossequio alla seducente quanto contraddittoria regione che rappresenta, dove l’eccesso é la regola e il raziocinio un qualcosa da schivare come la peste.
Si é infatti disputata a cadenza annuale, biennale, triennale e quadriennale: addirittura due volte nel 1959 per poi sparire dai calendari per otto anni dal 1967 al 1975.
Normalmente in una sede unica, con l’Argentina (quella ai nastri di partenza sarà la nona edizione ospitata) quale anfitrione più gettonato. Ma anche senza fissa dimora, con partite di andata e ritorno (1975, 1979, 1983).
Giusto per dare l’idea del caos imperante, basti dire che nel 1987, allo scopo di rimettere un po’ d’ordine, si é deciso di assegnare l’organizzazione del torneo secondo criteri tecnici assai ponderati: l’ordine alfabetico! Per la cronaca, si partì così con l’Argentina, ma già alla lettera B la Bolivia si tirò fuori facendo sciaguratamente saltare il maldestro meccanismo …
Negli ultimi anni ha visto al via rappresentative del Nord e del Centro America (e fin qui …), e nel 1999, incredibile dictu, il Giappone, facoltoso ospite recante in dono sponsor a volontà. Tanto avulso dal contesto quanto gradito, al punto da essere reinvitato per l’imminente Copa America 2011, cui il paese del Sol Levante dovrà rinunciare per problemi organizzativi legati al recente terremoto.
Sorvoliamo per benevolenza verso il lettore sulle variazioni della formula, consistente fino al 1963 in un funzionale girone unico dove tutti incontrano tutti, per poi sbizzarrirsi in gironi, gironcini, ripescaggi vari e partite ad eliminazione diretta, partendo dai 4 partecipanti delle prime edizioni per arrivare ai 12 di oggi.
La Copa America é anche l’unico torneo fra squadre nazionali disputatosi a Guerre Mondiali in corso.
Galeotto fu il centenario dell’indipendenza dell’Argentina, anno 1916. Che per l’occasione invita le rappresentative di  Brasile, Uruguay e Cile per un torneo celebrativo.
Vince l’Uruguay, che rovina la festa ai padroni di casa e si guadagna il diritto di ospitare l’edizione successiva (1917), da lì in avanti sotto l’egida della nascente “Confederacion Sudamericana de Futebol”.
Miglior marcatore l’urugagio Isabelino Gradin, futuro campione sudamericano anche nell’atletica leggera.
Ma soprattutto nero e figlio di schiavi africani: dettaglio per nulla trascurabile ai tempi. Già, perché l’Uruguay é l’unico paese a schierare giocatori di colore, e viene accusato di una sorta di “concorrenza sleale” (nella Celeste c’é un coloured, Juan Delgado).


Isabelino Gradin

Gradin, allora nemmeno ventenne, diventa un caso internazionale e una star allo stesso tempo. “Agile, elegante, alato, elettrico, repentino, delicato, fulminante” lo definisce il poeta futurista Juan Parra del Riego.
Dopo aver assistito al bis dei compagni dalla panchina l’anno seguente, nel 1919 partecipa alla terza edizione, organizzata in Brasile. Dove la questione razziale é una faccenda assai seria che travalica lo sport, e chiama in causa politicanti di ogni ordine e grado.
Sarà il suo canto del cigno: divenuto per sua stessa scelta un giocatore scomodo (aderisce anche a una Federazione uruguaiana “dissidente”), Gradin esce dal giro della nazionale che negli anni ’20 domina il mondo: il cui giocatore più celebrato sarà, come fa presto a girare il vento, la “maravilla negra” Andrade.
La fortissima stigmatizzazione all’uso di calciatori di colore, intanto, non impedisce ai brasiliani di esultare per le gesta di Arthur Friedenreich, di padre tedesco e mamma nera: lui ricco commerciante, lei modesta lavandaia.
Uno che prima di entrare in campo si stira i capelli per farli sembrare meno crespi e nascondere le sue origini meticcie. Uno che in carriera ha segnato circa 1.300 goal, forse più (ma il dibattito é aperto) di un certo Pelé.


Arthur Friedenreich

Quel 29 maggio 1919 a Rio de Janeiro in cui un goal nei supplementari del mulatto Friedenreich dà la prima Copa America al Brasile, é uno spartiacque nella storia del calcio mondiale.
Nella successiva edizione (1921) il Presidente brasiliano Pessoa prende le cose di petto, vietando l’utilizzo di calciatori di colore “per questioni di decoro nazionale”. Ma ormai le prodezze del figlio della lavandaia sono negli occhi di tutti: la strada é segnata, e porterà a Pelé, Garrincha, Gerson, Ronaldo e chi più ne ha più ne metta.
Continuando sulla scia delle edizioni disputate durante o in prossimità delle Guerre Mondiali, quelle del 1941, del 1942 e del 1945 vedono in campo una serie di eccezionali fuoriclasse, dai brasiliani Zizinho e Ademir al carismatico mediano uruguaiano Obdulio Varela, che in epoche diverse  avrebbero fatto parlare di sé in Europa, allora in tutt’altre faccende affaccendata.
Ma é l’Argentina a dettar legge, con quattro successi fra il 1941 e il 1947.
Pontoni, Sastre, Mendez, e soprattutto i componenti della formidabile “Maquina” (la linea d’attacco del River Plate di Buenos Aires):  Pedernera, Munoz, Loustau e su tutti José Manuel Moreno, biscazziere impenitente specializzato in risse da saloon, a detta di Maradona il miglior calciatore argentino di sempre.


José Manuel Moreno
Infine Rinaldo Martino e Mario Boyé, delle cui eccellenti prestazioni fra il 1945 e il 1947 si ricordano qualche anno più tardi Juventus e Genoa.
Sbarcati in Italia nell’estate del 1949, Martino fa giusto in tempo a vincere lo scudetto 1949-50, mentre Boyé detto “El atomico” desta sensazione nella sua brevissima parentesi italiana. Brevissima perché né a Torino né a Genova hanno fatto i conti con le mogli dei suddetti campioni. Le quali, avvinte dalla nostalgia di casa, costringono i rispettivi consorti a una rocambolesca quanto ignominiosa fuga dal Belpaese.
Nel 1947, intanto, si affaccia sulla scena internazionale uno dei cinque più grandi giocatori di sempre, Alfredo Di Stefano. Per la “Saeta Rubia”, già citato in precedenti articoli per l’allergia a manifestazioni per squadre nazionali, sarà l’unico successo senza indosso una maglia di club.
E qui fa capolino la vocazione della “Copa America” a fare eccezione, a far a pugni con la statistica se non addirittura con la logica e i naturali rapporti di forza.
Com’è possibile che il Brasile, quello per intenderci di Pelé, Didì e Zagallo, poi di Rivelino, Jairzinho e Tostao, sia riuscito a conquistare tre Mondiali fra il 1958 e il 1970, e neanche un titolo sudamericano?
E dopo di loro Zico, Falcao, Socrates e Junior. Nada: zeru tituli.
L’astinenza si protrae inspiegabilmente per qualcosa come quarant’anni, dal 1949 al 1989.
A interromperla, ironia della sorte, un Brasile fra i più contestati di sempre. Quello ultradifensivista di Sebastiao Lazaroni (5-difensori-5, una sorta di sacrilegio), futuro allenatore per nulla apprezzato della Fiorentina, nonché zimbello di “Mai dire goal” per via di un eloquio incomprensibile ai più.
Due più due raramente fa quattro, da queste parti. L’iconografia classica vuole il calciatore brasiliano elegante e aggraziato, e quello argentino, soprattutto in tema di difensori, tignoso e violento?
Beh, chiedete a José Salomon, ruvido terzino argentino vincitore nel 1941 e nel 1945. La sua carriera internazionale si chiude nell’edizione del 1946, a causa di un intervento assassino del sontuoso attaccante brasileiro Chico, che gli fracassa tibia e perone.
E allora, quali le ragioni di una così netta divaricazione dal trend del calcio mondiale?
Il fatto è che la Copa America é un mondo a sé.
Va respirata, va sentita sulla pelle: una pelle che ci immaginiamo imperlata e sudaticcia come in quei romanzi di Garcia Marquez pieni di magia e di passioni ancestrali: e così é certamente stato fino al 1967, quando si é disputata in quelli che per noi sono i mesi invernali, ma che per quelli che stanno nell’emisfero australe significano estate, ed estate torrida.
Fino al 1975 nessuna squadra vincitrice ha mai annoverato fra le proprie fila un giocatore militante in squadre non sudamericane.
C’é stata, per decenni, una scissione quasi bipolare fra la chiassosa fama acquisita da molti pittoreschi eroi idolatrati in Sudamerica, e l’eco attutita, talvolta deformata, che ne giungeva nella lontana e austera Europa.
I massimi cannonieri della rassegna sono il già citato Zizinho e l’argentino Norberto Mendez (17 goal). Vere proprie leggende oltre oceano: note solo ai calciofili più dotti dalle nostre parti.
L’uruguaiano Hector Scarone, unico ad aver vinto la Copa America per quattro volte (1917, 1923, 1924, 1926), tentò l’avventura europea con notevole anticipo sui tempi. Bilancio? Beh, fate voi: 18 partite e 9 goal col Barcellona, 14 partite e 7 reti con l’Inter, 54 partite in due anni con 13 reti al Palermo. Bazzecole, per un autentico monumento, che ha vinto pure due Olimpiadi e il primo Campionato del Mondo della storia.
Poi il calcio industrializzato ha lentamente appiattito tutto: dal 1967 si è traslocato in estate (nella nostra estate), e ciò ha evitato che la massima rassegna sudamericana cascasse nel bel mezzo dei campionati europei.
Ma bisogna aspettare vent’anni per assistere a un massiccio contro-esodo di campioni sudamericani “emigrati”, tornati in patria a “miracol mostrare”.
Nel 1987 l’Argentina Campione del Mondo cala il pezzo da novanta: un Diego Armando Maradona in grande spolvero. Il Brasile risponde con il suo futuro compagno d’attacco al Napoli, il temibile Careca.
Risultato: il Brasile esce nel girone eliminatorio, dopo aver perso 4 a 0 dal Cile. L’Argentina viene eliminata in semifinale dall’Uruguay, che vincerà il torneo. Capocannoniere? Né Maradona né Careca, ma tale Arnoldo Iguaran, colombiano.
Il fatto é che si può essere dei campioni col portafoglio rigonfio di sterline, lire o pesetas, ma la colonna sonora non la si sceglie.
E il ritmo da quelle parti é sempre quello ammiccante dei tango di Astor Piazzolla, talvolta quello felpato della bossanova di Vinicius De Moraes. Ed é un ritmo che più volte respinge i propri figli andati a far fortuna altrove, sintonizzati ormai su frequenze diverse da quelle assimilate in gioventù.
Chi ha raggiunto soldi e gloria nel Vecchio Continente, difficilmente conserva lo spirito per lottare col coltello fra i denti. E se ne ha forza e intenzione (fare la Copa America significa, in soldoni, dimezzarsi le vacanze), deve pur sempre sfidare la ritrosia del proprio club di appartenenza, preoccupato (a ragione) che il proprio gioiello ritorni ammaccato da una contesa che é tutto tranne che una bonaria rimpatriata.
E’ tutto il calcio sudamericano, a ben vedere, ad aver leggi tutti sue.
Il Sudamerica pallonaro é un paese per vecchi e per adolescenti. Un cimitero degli elefanti per campioni scaricati dal calcio che conta, o una palestra formativa per giovani virgulti di belle speranze. La generazione di mezzo non esiste: se non sotto forma di emeriti brocchi che non han trovato ingaggio nemmeno nel più scalcinato dei campionati europei.
A volte, é semplicemente un paese per matti: per gente naif dalle indiscutibili qualità pedatorie, ma dalla testa svitata e da una palese idiosincrasia verso tutti quelli aspetti del gioco che concernono la tattica e la corsa.
Reso il dovuto omaggio al genio brasiliano Edmundo detto “o’ animal”, va detto che si potrebbe riempire un intero elenco telefonico con i nomi dei giocatori soprannominati, mai a sproposito, “El loco” (il matto).
Hugo Gatti, portiere argentino anni ‘70, soffriva tremendamente la solitudine e gli interminabili momenti morti che il ruolo comporta.
Così sovente si lanciava, con la lunga zazzera tenuta a bada da una bandana variopinta, in uscite spericolate a centrocampo. Un paio di volte si è pure arrampicato sulla traversa e vi si é seduto sopra: così, per vedere l’effetto che fa.
Un giorno, in Argentina, si ritrova davanti un piccoletto grassoccio di neanche vent’anni. Lo apostrofa: “Nanerottolo, sei troppo grasso per farmi goal”. Il ragazzino, indispettito, gliene fa quattro: si chiamava Diego Armando Maradona …
Martin Palermo, appena ritiratosi dal calcio giocato, i capelli preferiva tingerseli di biondo platino.
Centravanti argentino fra i più prolifici degli ultimi vent’anni, entra nella leggenda durante la Copa America 1999. Quando contro la Colombia sbaglia 3 rigori nel medesimo match, record tuttora imbattuto. Pazzo lui, certo, ma che dire del suo allenatore che per tre volte lo lascia andare sul dischetto senza batter ciglio?
Recente new entry, infine, l’uruguagio Sebastian Abreu. Che ai Mondiali di Sud Africa 2010 segna il rigore decisivo contro il Ghana (che dà alla sua Nazionale una semifinale attesa 40 anni) facendo “il cucchiaio”, come uno sbruffoncello qualsiasi in un torneo fra bar.
Tutto ciò per dire che non c’é da stupirsi granché se i sopraccitati “locos” hanno poi raccolto ben poche soddisfazioni nel cartesiano calcio europeo, allorquando abbiano deciso di cimentarvisi.
Il calcio sudamericano é questo, prendere o lasciare: la sua massima rassegna internazionale non ha fatto altro che andare di conseguenza.
Per l’Europa e per i suoi mercanti di carne umana calciante, tuttavia, é sempre parso più fruttuoso reperire la materia prima in giovane età, ritenendola più facilmente plasmabile.
La Fiera espositiva per campioni in erba, a ben vedere, apre i battenti già nel 1921, quando rivela Julio Libonatti, capocannoniere e vincitore con l’Argentina. Acquistato dal Torino, farà sfracelli nel nostro campionato e, stanti le inequivocabili origini, sarà il primo oriundo della storia del calcio italiano.
Ma é l’edizione del 1957 ad assurgere ad autentico paradigma di questo rapporto di osmosi fra calcio sudamericano ed europeo.
 E’ infatti la Copa America de “Los Carasucias” (“gli angeli dalla faccia sporca”), la formidabile prima linea argentina composta da Omar Sivori, Antonio Valentin Angelillo e Humberto Maschio.
Sivori va alla Juventus, dove diventerà ben presto una star, Maschio finisce al Bologna, ma vivrà fra alti e bassi la sua carriera italiana, osteggiato in particolare da Helenio Herrera nella sua parentesi interista.
Angelillo, invece, ballerà una sola estate (33 goal all’Inter nel campionato ‘58-’59) prima di piombare in una precoce mediocrità e trovare l’amore sotto forma di una velina ante-litteram.
Dagli anni ’90 in poi il traffico unidirezionale via Atlantico si fa sempre più congestionato.
L’edizione del 1991 incorona un giovanissimo bomber argentino di nome Gabriel Omar Batistuta.
La Fiorentina targata Cecchi Gori acquista lui e il suo gemello al Boca Juniors, il funambolo Diego Latorre, atteso almeno quanto il futuro Batigol ma lasciato ancora un anno in Sudamerica a maturare.
Batistuta fatica parecchio nella prima stagione, per poi esplodere nella seconda (16 goal), che tuttavia porta alla retrocessione dei Viola. Quanto a Latorre, approdato a Firenze nell’estate ‘92, gioca due partite e sparisce mestamente dalla circolazione.
La Copa America 1995 vale un biglietto di sola andata per l’Europa per grandissimo Roberto Carlos, ma anche per il carneade uruguagio Otero. Quella del 1999 regala l’occasione della vita alla promessa mai mantenuta Santa Cruz, quella del 2001 alla bufala interista Sorondo. A dimostrazione che i calciatori sudamericani sono come le scatole di cioccolatini per Forrest Gump: non sai mai quello che ci trovi dentro.
La Copa America sa anche premiare a volte realtà virtuose che magari in un proscenio mondiale non verrebbero valorizzate: schiacciate, com’é logico che sia, dalla solite super-potenze.
Fra i soliti vasi di ferro si fa largo nel 1975 il Perù del grande fuoriclasse  Teofilo Cubillas, ma anche del minuscolo difensore Hector Chumpitaz detto “El granitico”, dell’ala Juan Carlos Oblitas e del giovane Geronimo Barbadillo, poi protagonista in Italia con Avellino e Udinese.
Presentatisi come campioni sudamericani in carica ai Mondiali argentini del 1978, i discendenti dei vecchi Incas chiudono ingloriosamente la rassegna iridata con un umiliante 6-0 (la famigerata “marmelada peruana”) contro i padroni di casa: risultato palesemente pilotato per agevolare l’accesso alla finale dell’Argentina.
L’edizione del 1997 porta alla ribalta la Bolivia padrone di casa, trascinata dalle prodezze di Erwin Sanchez, detto “Platini” (con notevole sforzo d’immaginazione…), e da condizioni climatiche proibitive, leggi 3.000 e passa metri sul livello del mare, per gran parte degli avversari.
Nel 2001 trionfa la Colombia di Francisco Maturana, un “Arrigo Sacchi delle Ande” che sul finire degli anni ‘80 contendeva al santone romagnolo la palma di profeta del calcio del futuro. Fra i migliori, i difensori centrali Ivan Ramiro Cordoba e Mario Yepes, ben noti ai tifosi milanesi di entrambe le sponde.
Sui gradini più bassi del podio due paesi “intrusi”: il Messico e il piccolo l’Honduras, che elimina, udite udite, il Brasile nei quarti di finale.
Da allora la Copa America pare aver messo la testa a posto. Due vittorie del Brasile (2004 e 2007), entrambe in finale con l’Argentina, danno l’idea di una certa corrispondenza agli effettivi valori in campo.
Nel 2004, per la prima volta, la maggioranza dei vincitori non milita in campionati sudamericani (10 “europei” e un “giapponese” fra i 22 brasiliani in rosa). Tre anni dopo, é l’ultima edizione disputata, la sproporzione  (19 “emigrati” su 22) é inequivocabile.
L’europeizzazione é imponente e pare inarrestabile. Nell’era del calcio globalizzato, la via sudamericana al football pare una pia illusione: non nell’accezione di solo una ventina d’anni orsono, almeno.
La tara del valore delle squadre si fa su quanti giocatori della Premier League inglese ha la squadra X e quanti della Liga spagnola ha la squadra Y. Le possibilità che qualche talento formidabile sia sfuggito ai radar dei grandi club europei sono praticamente nulle.
Detto questo, gli amanti dei coup de theatre non disperino.
Solo un anno e mezzo fa l’Argentina, nonostante il Pallone d’Oro Messi in campo e Maradona in panchina (ma qui sul “nonostante” si potrebbe obiettare ...) ha perso 6 a 1 dalla Bolivia rischiando di non qualificarsi per i Mondiali: traguardo raggiunto invece con nonchance dai piccoli Paraguay e Cile.
Intanto, il Messico, fra le nazioni più prolifiche di talenti negli ultimi anni, si presenterà con una squadra decimata e riassemblata alla bell’e meglio: perché otto giocatori sono stati beccati in flagranza di “bunga bunga” nell’ hotel che ospitava la rappresentativa centroamericana.
E allora vien da pensare che tutto sia ancora possibile. Perché oggi come quasi cent’anni fa vale lo stesso detto: mai dare nulla per scontato, alla Copa America.