Roma caput mundi? Non certo nello sport. Il recente fallimento della candidatura olimpica ha riportato alla luce il contraddittorio rapporto fra la Città Eterna e lo sport.
Capitale un tempo di un immenso impero (quando ci si appassionava a battaglie fra gladiatori e corse delle bighe) e in seguito di uno Stato dallo sgangherato presente, inimitabile commistione di sacro (Città del Vaticano) e profano (dall’epoca della Dolce Vita agli shopping compulsivi in via Condotti), meta turistica mai demodé e set cinematografico a cielo aperto.
Sportivamente parlando, tutt’al più una piacevole e apprezzata padrona di casa. Una Olimpiade (1960), Mondiali di nuoto (1994 e 2009), atletica leggera (1987), nonché della finale di 2 Mondiali di pallavolo (1978 e 2010) e di uno di calcio (1990).
Annualmente di un torneo di tennis, quello del Foro Italico, tecnicamente vale meno di tanti altri, ma assai gradito dai protagonisti, per via dell’atmosfera glamour che lo contraddistingue, e delle partite del “Sei Nazioni” di rugby, che porta orde di appassionati della palla ovale dalle antiche Britannia e Gallia, sempre entusiasti dell’accoglienza della “Città Eterna”.
Per il resto, il clou della stagione sportiva romana é, lo sanno anche i sanpietrini di Piazza Navona, il derby fra Roma e Lazio, che consacra idoli e emette condanne senza appello a prescindere dalla reale consistenza (leggi posizioni in classifica a fine anno, non sempre entusiasmanti) delle due contendenti.
Il fatto é che in riva al Tevere si é di bocca buona, e non solo in senso culinario. Lo sport appassiona sì, ma se di un certo livello e condito da quel cocktail di internazionalità e mondanità Se no, tanto vale farsi prendere dalle beghe di cortile, moderne riedizioni della disfida fra Oriazi contro Curiazi.
Il risultato inevitabile é che la nostra capitale arranca vistosamente anche a livello nazionale quanto ad affermazioni in campo sportivo.
5 scudetti nel calcio (3 con la Roma, 2 con la Lazio), ne fanno la sesta città d’Italia, in un’ipotetica graduatoria, dietro Milano, Torino, Genova, Bologna e persino Vercelli, grande mattatrice dell’età pionieristica con 7 campionati fra il 1908 e il 1922.
5 titoli anche nel basket (l’ultimo nel 1983, gli altri nell’anteguerra…), 2 nella pallavolo (contro i 22 di Modena!) e 9 nel rugby: tutti fra gli anni ’30 e ’60, quando la palla ovale dalle nostre parti era roba per pochi intimi.
Fallito il progetto di costruire un circuito automobilistico cittadino all’EUR, il Gran Premio d’Italia si svolge da sempre a Monza, nell’hinterland milanese.
Ed é sempre il capoluogo meneghino ad ospitare, salvo rare eccezioni, l’arrivo del Giro d’Italia, che é forse l’espressione più compiuta, in ambito sportivo, dell’unità nazionale di un Paese, e spetterebbe quasi di diritto (si veda il Tour de France o la Vuelta Espana) alla capitale amministrativa.
Se Bologna é da tempo ribattezzata “basket city”, rugby e pallavolo hanno spesso preso la strada della provincia: preferibilmente veneta la palla ovale, il più delle volte emiliana il volley.
A conti fatti, incoronata Milano capitale sportiva ad honorem, Roma paga dazio quantomeno nei confronti di Torino, Bologna e di una realtà sui generis come Treviso, che sotto l’ala protettrice di una multinazionale come la Benetton, ha fatto incetta dagli anni ’80 in poi di scudetti nel basket, nella pallavolo e nel rugby.
La curiosa situazione defilata, tutt’al più da provinciale di lusso, di Roma, suggerisce un’analisi a 360 gradi sul rapporto fra le capitali nazionali e lo sport.
Il risultato che ne scaturisce, in parte consolante per il capoluogo laziale, é che non siamo per nulla di fronte a un caso isolato.
Intendiamoci: la regola é che, laddove la capitale amministrativa coincida con quella economica (cosa che non accade per esempio negli USA con Washington, in Brasile con Brasilia, o in Australia con Canberra), lì si concentrino i club più titolati e gli eventi più importanti. E lì, periferie ipertrofiche comprese, é più probabile vengano alla luce i campioni più affermati, se non altro per questioni statistiche (le capitali sono solitamente le città più popolose).
A questa macrocategoria appartengono senza tanti giri di parole Mosca, Atene, Buenos Aires, Vienna, Tokyo.
Emblematico il caso di Buenos Aires, dove ovviamente il calcio fa la voce grossa. Quella appena partita é la prima edizione del Campionato Argentino senza il River Plate, la squadra più amata della capitale, insieme al Boca Juniors, sciaguratamente retrocessa in Serie B.
Eppure delle 20 squadre al via, ben 7 sono di Baires. Non male, ma la cosa assume proporzioni ancora più imponenti se si pensa che delle restanti 13, otto hanno sede a La Plata, Avellaneda, Lanus (luogo di nascita di Maradona), Quilmes, Sarandì e Banfield: formalmente municipalità a sé stanti, in realtà sobborghi facenti parte integrante della grande area metropolitana di Buenos Aires.
Insomma, 15 su 20. Un record che fa storia a sé? Tutt’altro. Basta attraversare il Rio de la Plata, per vederlo superare dal Campionato Uruguaiano, dove 15 squadre su 16 (sic!) sono di Montevideo.
Venendo all’Europa, l’Oscar del centralismo spetta a Mosca.
Nel calcio deve limitarsi ad una leadership interna, con i vari Dinamo, Spartak, CSKA e Torpedo. Qui la Dinamo Kiev é stata l’unica seria avversaria degli squadroni della capitale fintanto che si é parlato di URSS, mentre il post comunismo ha portato alla ribalta realtà come lo Zenit San Pietroburgo e i tartari del Rubin Kazan.
In altri sport invece (diciamo quelli “olimpici”, tradizionalmente sovvenzionati dal Regime Comunista), il dominio è totale anche in campo europeo.
Il CSKA ha vinto 20 Coppa dei Campioni nell’hockey su ghiaccio (di cui 13 consecutive!), 6 nel basket maschile, 13 nella pallavolo maschile e 4 in quella femminile, dove é stato superato dalla Dinamo con 10 affermazioni.
A questo punto, snocciolata una cospicua serie di dati, é d’uopo fermarsi e fare un’analisi più attenta.
Nei Paesi dell’ex-blocco comunista l’attività sportiva era sotto l’egida di enti e organismi statali (i vari CSKA facevano capo all’esercito, le Dinamo ai Ministeri dell’Interno, le Lokomotiv alle Ferrovie dello Stato, e via dicendo).
Ovvio che le società sportive loro emanazione avessero sede nella capitale e che in una logica non certo di libero mercato fossero agevolate nell’arruolamento degli atleti migliori. Altrettanto comprensibile che l’onda lunga di questa strutturazione si sia trascinata fino ai giorni nostri, anche ora che restano solo le macerie di quella realtà.
Altro aspetto caratteristico dell’organizzazione dei Paesi comunisti era la presenza delle “Società Polisportive”.
Dietro a una capitale “dominante” c’é molto spesso la forza di colossi che hanno prevedibilmente nella sezione calcistica la branca più seguita dai tifosi, ma che sono comunque in grado di primeggiare in più sport.
Questo vale anche nell’Europa occidentale.
Basti pensare ad Atene, con Panathinaikos, Olympiakos (che sarebbe del Pireo, in pratica il porto di Atene) e in misura minore AEK a far man bassa di titoli nazionali negli sport di squadra, con punte d’eccellenza internazionale nel basket (6 Euroleghe per il Panathinaikos, 1 per l’Olympiakos).
O a Lisbona, dove i biancorossi del Benfica hanno mietuto successi in tutti gli sport di squadra, compresi il calcio (chi non ricorda il Benfica di Eusebio…) e l’ hockey su pista in cui i lusitani sono una potenza, senza trascurare le storiche sezioni dedicate ad atletica, ciclismo e nuoto.
Situazione simile, ma con non poche anomalie, in Spagna: in pratica una nazione bicefala, sportivamente parlando e non solo.
Madrid vive di calcio e in misura minore di basket, e in entrambi i casi dello strapotere della gloriosa Polisportiva Real Madrid.
9 Coppe Campioni (o Champions League) nel calcio, 8 Coppe Campioni (o Eurolega che dir si voglia) nel basket ne fanno il club più titolato d’Europa, ma in ambedue le discipline gli ultimi anni si sono rivelati avari di soddisfazioni, se misurati con i successi degli eterni e acerrimi rivali del Barcellona.
Per un tifoso del Real il vero derby é sempre e solo quello col Barça, nonostante nella capitale iberica vi sia un’altra validissima squadra di calcio, l’Atletico Madrid (più le piccole Getafe e Rayo Vallecano), nonché una team di consolidata tradizione nel basket come l’Estudiantes (e da pochi anni il Fuenlabrada).
Madrid ha dato i Natali al 3 volte vincitore del Tour de France, Alberto Contador, ma il capoluogo catalano replica con l’ossatura delle Nazionali di calcio (Iniesta, Xavi e via dicendo) e basket (i fratelli Gasol e Navarro), entrambe campionesse europee e mondiali in carica, oltre al motociclista Pedrosa.
Barcellona ha i suoi Gran Premi di Formula Uno e MotoGP, ma lo smacco più bruciante all’odiata capitale lo ha inflitto senza ombra di dubbio nel 1992, quando ospitò la prima e sinora unica Olimpiade assegnata alla Spagna.
Londra merita un approfondimento a parte, e sarà oggetto di uno specifico articolo di prossima pubblicazione.
Per ora limitiamoci a dire che la capitale inglese si appresta ad battere un record che più storico non si può: quello di essere, nel 2012, la prima città ad ospitare per la terza volta un’Olimpiade, dopo quelle del 1908 e del 1948.
Per il resto vanta il torneo di tennis più famoso del mondo (Wimbledon) e tutta una teoria di club di football e rugby, gli sport più in voga all’ombra del Big Ben, dalle più svariate tradizioni e carature.
Eppure le squadre più titolate in campo rugbystico risultano essere il Bath, elegante centro termale di neanche 100.000 abitanti, e i Leicester Tigers, team della capitale del Leicestershire, poco meno di 300.000 abitanti.
Nel calcio, nonostante l’indubbio peso specifico di storici club londinesi come Arsenal, Chelsea o Tottenham, basti constatare come 4 squadre inglesi si siano sinora issate sul tetto d’Europa: una di Manchester, una di Liverpool, una di Birmingham e una di Nottingham: e nessuna di Londra.
Con la capitale inglese apriamo così il capitolo delle eccezioni che fanno compagnia a Roma.
Il caso che balza subito all’occhio é quello di Parigi.
La città della Rivoluzione Francese, che proietta l’Europa verso l’Età Contemporanea, degli Impressionisti che scardinarono le regole della pittura, della Belle Epoque, degli Esistenzialisti e della “haute couture”.
Parigi che é capitale del proprio Stato molto più di quanto non lo siano tante altre capitali: perché di là dalle Alpi o si è parigini (che sono un quinto, banlieue compresa, dei francesi tutti), o si viene dalla provincia tout court.
Ebbene: la “Ville Lumière” ha un rapporto a dir poco tormentato con lo sport.
La società calcistica più titolata é il Paris Saint Germain, 2 scudetti e una Coppa delle Coppe. Nato in epoca relativamente recente (1970) e riportato in auge quest’estate dai petrodollari dell’emiro Tamim Al Thani (e dall’arrivo del reprobo milanista/interista Leonardo), ha peraltro vissuto lunghi periodi di vacche magre.
A questo si aggiunge lo scudetto del Racing Club nel lontano 1936.
Ora: 3 scudetti collocano Parigi al pari di Lilla (225.000 abitanti) e dietro a Saint-Etienne (capofila con 10 titoli), Marsiglia, Nantes, Lione, il Principato di Monaco (c’é anche quello…), Bordeaux, Reims e Nizza.
Il già citato Racing Club é sprofondato nelle serie dilettantistiche, al pari del Red Star, fondato da Jules Rimet (l’inventore della Coppa del Mondo) e dello Stade Français, prima squadra allenata da Helenio Herrera.
Proviamo col rugby, sport molto amato (forse ancor più del calcio) dai nostri cugini d’Oltralpe.
Qui va un po’ meglio. Stade Français (13 titoli) e Racing Club (5) vantano una tradizione secolare. In epoca recente tuttavia i campionati hanno più spesso preso la via di Tolosa (leader con 18 successi), Clermont Ferrand e Perpignan, mentre 3 degli ultimi 10 tornei li ha vinti il Biarritz, località balneare al confine coi Paesi Baschi. Ergo, provincia anche qui: e del Sud a ridosso della Spagna, in particolare.
Aggiungiamoci che la squadra più titolata del basket francese é il Pau-Orthez, fino al 1989 semplicemente Orthez, paesino di 10.000 anime ai piedi dei Pirenei, fusosi per esigenze logistiche con Pau (85.000, avessi detto New York …), il quadro é decisamente esaustivo.
A snocciolare questi dati, parrebbe che dai tempi dei quadri di Renoir, Monet, Seurat, il tempo non sia mai fermato. Che a Parigi e dintorni nel fine settimana si faccia di tutto tranne che andare a vedere partite di qualsivoglia sport: un pic-nic a Bois de Boulogne, una visita al Louvre, un aperitivo a Montmartre, un concerto all’Opera.
Del resto fino ai Mondiali di calcio del 1998, che portarono alla costruzione dell’avveniristico e polifunzionale “Stade de France” (81.000 posti), i due impianti più capienti erano i tutto sommato angusti, per una megalopoli, Parco dei Principi (44.000) e Stade de Colombes, che dai 63.000 posti iniziali é via via sceso ai 14.000 di oggi.
Anche l’altezzosa capitale transalpina pare quindi risvegliarsi una tantum, e solo per avvenimenti degni del suo lignaggio. Olimpiadi (1900 e 1924), Mondiali di calcio (1938 e 1998) o di rugby (2007).
Annualmente possiamo citare il “Prix d’Amerique” di trotto in gennaio, e il torneo tennistico del “Roland Garros” a giugno, pienamente in sintonia con l’atmosfera vagamente snob che si respira all’ombra della Tour Eiffel.
Stringi stringi, il clou del calendario sportivo parigino potrebbe considerarsi l’ultima tappa del Tour de France, l’avvenimento più amato dai nostri cugini d’Oltralpe.
Ma per onestà intellettuale va detto che il tradizionale arrivo sui Campi Elisi e le premiazioni con l’Arco di Trionfo sullo sfondo, sono nient’altro che una passerella: certo molto suggestiva, suggello tuttavia di una competizione che consuma il suo pathos agonistico in tre settimane su strade di campagna e di montagna, fra tifosi accampati in tende e camper, campi di grano che diventano lavagne per inneggiare ai corridori e animali da allevamento che scorrazzano terrorizzati dalla presenza di visitatori sconosciuti.
Insomma: il Tour si vince sporcandosi di fango in provincia, a Parigi si va in smoking solo per riscuotere il premio.
Passiamo a Berlino, che, detto per inciso, non ci ha guadagnato molto (sportivamente parlando, ci mancherebbe), dal crollo del celeberrimo muro.
La capitale tedesca vive una situazione del tutto analoga a Roma, con una città (Monaco, da noi Milano), a sconfessare quella che é la leadership politica.
Due le Olimpiadi assegnate sinora alla Germania: una a Berlino (1936), una al capoluogo bavarese (1972). Entrambe peraltro tristemente passate alla storia: per l’autocelebrazione nazista la prima, per il sanguinoso attentato la seconda.
Due Mondiali di calcio: il primo con atto conclusivo a Monaco (1974), il secondo a Berlino (2006).
Uno a te, uno a me, in sintesi.
La squadra di calcio più amata é l’Hertha, tornato quest’anno in Bundesliga dopo una anno di purgatorio nella serie cadetta.
2 titoli tedeschi, nel 1930 e 1931, più 2 del Viktoria (1908 e 1911) e uno del Blau-Weiss (1905). Nel dopoguerra solo campionati della Germania Est (16 in tutto), sulla cui attendibilità, l’abbiamo vista nell’articolo sul calcio d’Oltrecortina, é tuttavia lecito dubitare.
Messi insieme, fra titoli conquistati in Età Prussiana, Repubblica di Weimar, Terzo Reich e DDR, farebbero 21 campionati: comunque uno in meno di quelli conquistati dal Bayern Monaco, dagli anni ’60 in poi…
Per il resto nel basket la fa da padrone l’Alba Berlino, ma si tratta di un torneo di limitato spessore internazionale (in generale i tedeschi non investono granché in sport di squadra che non siano il calcio).
Grande é invece l’amore per l’atletica leggera, prima e dopo la caduta del Muro. La prova é stata per anni il Meeting di Berlino, uno dei più importanti del pianeta, che tuttavia é uscito a partire dal 2010 dalla Diamond League, in pratica la Serie A dell’atletica internazionale.
In Svizzera, Berna si coccola il ciclista Fabian Cancellara, ma nel calcio è dietro a Zurigo, Ginevra e Basilea. Del resto, se la barca Alinghi (2 Coppe America) scorazza tutt’al più nelle acque placide del Lago Lemano, é altrettanto evidente che in una nazione che trepida per gli sport invernali, le vere “capitali” siano le località montane, da Sankt-Moritz a Davos, da Wengen a Crans Montana.
In Israele, dove va per la maggiore il basket, Tel Aviv (il centro economico più importante) ha vinto 54 campionati su 57, lasciando a bocca asciutta la capitale Gerusalemme, che resta comunque la città più popolosa. Un po’ meglio nel calcio, con 6 titoli per il Beitar Gerusalemme, ma a farla da padrona è sempre Tel Aviv (31) davanti ad Haifa (13).
Chiudiamo con uno sguardo oltreoceano, nei grandi Stati Uniti d’America.
Abbiamo già accennato come Washington sia esclusivamente una capitale amministrativa, sede degli organi istituzionali e dell’apparato burocratico ad essi connesso.
In effetti la bacheca della città della Casa Bianca é alquanto spoglia.
Fiore all’occhiello il football, con 5 titoli per i Washington Red Skins. Per il resto un titolo nel basket con i Washington Bullets (nel lontano 1978) e uno nel baseball con i Washington Senators (ve la immaginate una squadra di Roma chiamarsi “Deputati Roma”?).
Proviamo allora a prendere in esame quella che é da considerarsi la capitale economica e morale degli USA, ossia New York. Economica, perché sede di Wall Street, fulcro dell’economia a stelle e strisce. Morale, perché lì c’è la Statua della Libertà, simbolo americano per eccellenza, e lì hanno agito i terroristi nel 2001 quando hanno voluto colpire al cuore l’America.
I risultati sono contradditori. Prendendo in esame i 4 sport più amati dagli americani (baseball, basket, football americano e hockey su ghiaccio), New York ne esce ampiamente vincitrice con 53 titoli, seguita a debita distanza da Boston (32) e Detroit (22).
La distribuzione, tuttavia, é alquanto diseguale.
Rullo compressore nel baseball con 34 campionati (27 con gli Yankees, 5 con i Giants e 2 con i Mets).
Ad alto livello, ma non città leader, nell’hockey (10 titoli mettendoci anche i 2 del sobborgo Newark), e nel football (7), dove la capofila è, assoluta anomalia nel contesto statunitense che antepone il bacino d’utenza ai meriti sportivi, la piccola Green Bay (100.000 abitanti), cittadina del Wisconsin che si affaccia sul Lago Michigan.
Cenerentola nel basket, dove insegue un titolo che manca dal 1973 (i New York Knicks ne vinsero un altro nel 1970), a distanza siderale dai 17 dei “vicini” di Boston.
La “Grande Mela” ha la maratona più famosa del Mondo, ma nonostante la sua spiccata dimensione esterofila (è sede delle Nazioni Unite), manca del riconoscimento olimpico.
La prima Olimpiade su suolo americano si disputò nel 1904 a Saint Louis, e fu ridotta ad una sorta di fiera paesana. Poi due volte Los Angeles (1932 e 1984) e infine Atlanta (1996): o per meglio dire, “Coca Cola city”.
Che conclusione trarre, alla fine di questa lunga panoramica?
Beh, che grande é bello, in linea di massima. Ma non sempre.
La grande città rende talvolta consueto ciò che in provincia può diventare un avvenimento epocale, e catalizzare le passioni di una intera comunità. Meglio uno stadio da 10.000 posti, pieno e ribollente di un tifo consapevole in cuor suo che “chissà quando ci ricapita un’occasione così…”, piuttosto che uno da 80.000 che si riempie solo nelle grandi occasioni, con un pubblico assuefatto a certi risultati al punto da ritenerli scontati.
Ma forse non é neanche questo il punto. Perché raramente si tratta di meteore: la francese Orthez nel basket, l’inglese Bath nel rugby o la nostra Modena nella pallavolo sono lì a dimostrarlo.
Questione di tradizione, di organizzazione ben oliata, di un processo di identificazione nei colori sociali che più facilmente attecchisce in realtà meno dispersive. E se é vero com’é vero che queste società sono nate in un’epoca semi-dilettantistica in cui i costi di gestione erano ridotti, in un sistema come quello attuale, dove gli incassi da stadio (o palazzetto) sono briciole rispetto a quanto incassato dai diritti televisivi, avere un seguito ridotto sugli spalti risulta penalizzante fino a un certo punto.
Ci sono poi i casi di Milano, Barcellona, Monaco di Baviera o Manchester: città operose ed economicamente floride, che hanno tutte le carte in regola per insidiare la potenza della capitale e lanciarle il guanto di sfida, con implicazioni spesso dichiaratamente politiche (si pensi a Barcellona e l’indipendentismo catalano, e in misura minore a Milano e ai venti di secessione di matrice leghista).
Quel che é certo, è che le eccezioni citate (Roma, Parigi, Berlino, Gerusalemme, in parte Londra e New York) non possono considerarsi casuali.
Si parla di patrimoni dell’Umanità tutta: cardini della storia politica, economica e religiosa mondiale, spesso epicentri di rivoluzioni epocali in campo sociale e culturale.
Sembrerebbe che città così onuste di storia, sature di opportunità di svago e invase quotidianamente da turisti di tutto il mondo, non abbiano tempo per appassionarsi a vicende sportive
Forse è il cosmopolitismo, più che le dimensioni, il cuore della questione.
Perché la passione sportiva si basa su un processo di fideizzazione che segue regole precise. Si crea domenica dopo domenica, nella buona e nella cattiva sorte, (anzi, nella cattiva ancor di più), e cresce esponenzialmente quando si appoggia su altri elementi fortemente identitari. Appartenenza etnica (spiccata la vocazione sportiva dei Baschi), politica (i tifosi della Lazio sono di destra, quelli del Livorno di sinistra), sociale (i tifosi del Manchester City che rivendicano la loro appartenenza alla working class rispetto ai cugini dello United) e financo religiosa (il sanguinoso derby di Glasgow fra i cattolici del Celtic e i protestanti dei Rangers).
La varietà di scelta non aiuta tutto questo: prendete certi centri (magari del Meridione), dove le opportunità di aggregazione ed evasione dalla realtà quotidiana scarseggiano, e la squadra di calcio o di pallavolo si presenta come una piccola ancora di salvezza. Magari, se vi capita, chiedete a un casertano cosa ha significato vincere lo scudetto del basket nel 1991, con la squadra fatta per tre quarti di “scugnizzi” del posto.
E non é un caso che certe metropoli “universali” vedano esplodere il sacro fuoco della passione sportiva (si pensi alla rivalità calcistica fra Roma e Lazio), nel momento in cui dismettono la loro vocazione globale per appropriarsi di una dimensione “borgatara”, forse più angusta ma certamente più viscerale.
Del resto la quintessenza di quel virus agonistico che pervade qualsiasi tifoso, risiede un centinaio di chilometri più a Nord della nostra capitale.
Siena: 54.000 abitanti (più o meno la metà di un arrondissement, alias quartiere, di Parigi). Un Palio celeberrimo in cui 17 contrade, una ogni 3.000 abitanti (oggi, molti meno nel Medioevo…), si danno battaglia con un impeto che sfugge a qualsiasi criterio logico.
Inconcepibile nell’era del Villaggio Globale? Decisamente, e per ciò irresistibile.